Il mausoleo di Zeynel Bey, governatore del XV secolo, verrà staccato dal suolo e trasferito in un altro sito. Gli abitanti della città turca di Hasankeyf, nella provincia meridionale di Batman, e di altri 199 villaggi limitrofi, 80mila persone in tutto, dovranno abbandonare le proprie case per sempre. L’area, secondo il Southeastern Anatolia Project (GAP), approvato dalla Turchia nel 1982, verrà inondata nel 2019 per permettere l’attivazione della diga di Ilisu. Il progetto prevede la costruzione di 22 dighe nel sudest anatolico, di cui diciotto già ultimate. Hasankeyf, inserita nel 2008 nella lista dei cento siti più a rischio distruzione nel mondo, non è solo al centro di un mastodontico progetto ingegneristico. «Chi si oppone al Gap – spiega Toon Bijnens, coordinatore di Save The Tigris, rete che raccoglie associazioni e attivisti provenienti da tutta la Mesopotamia e dall’Europa – sostiene che dietro alla costruzione della diga di Ilisu ci sia l’idea di controllare la popolazione curda e di indebolire il Pkk (il Partito dei lavoratori del Kurdistan, definito illegale in Turchia, ndr) costringendo le persone a trasferirsi nelle grandi città».
«Chi si oppone al GAP sostiene che dietro alla costruzione della diga di Ilisu ci sia l’idea di controllare la popolazione curda»
Oltre a causare la diaspora degli abitanti della zona, il Gap a pieno regime, secondo uno studio del National Geographic, ridurrà dell’80 per cento il flusso delle acque del Tigri in Iraq. «La diga – prosegue Bijnens – porterà a una diminuzione delle risorse idriche irachene. Sarà usata per produrre energia, ma una portata minore del letto del Tigri comporterà la perdita di terreni agricoli, quindi di risorse e posti di lavoro, e causerà un deterioramento della qualità delle acque». La preoccupazione è legittima: negli anni Novanta le dighe turche costruite lungo il corso dell’Eufrate hanno ridotto notevolmente la disponibilità di acqua per la popolazione irachena.
Nonostante gli appelli di attivisti, accademici, avvocati, parlamentari e dell’ex ministro turco della Cultura e del Turismo, Ertuğrul Günay, non esistono accordi tra i due Paesi per un’equa condivisione dell’acqua. Gli unici esistenti riguardano l’Eufrate e coinvolgono da una parte Turchia e Siria e dall’altra Damasco e Baghdad. «Esiste una convenzione Onu per il non utilizzo dei corsi d’acqua internazionali per la navigazione, ma non è stata firmata dalla Turchia – denuncia Save The Tigris -. Quindi ciò che sta facendo la Turchia non è illegale, ma assolutamente scorretto». L’associazione ha proposto di avviare negoziati tra i Paesi ricorrendo, se necessario, alla mediazione di uno Stato terzo. Per l’Iraq, il cui governo è costantemente invitato ad agire dall’associazione, resta la via di un ricorso al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
La Turchia considera la diga una questione di sovranità nazionale e non tollera ingerenze esterne
La Turchia considera la diga una questione di sovranità nazionale e non tollera ingerenze esterne. «Quasi tutte le aziende europee che facevano parte del progetto di costruzione di Ilisu, si sono ritirate in seguito alla mobilitazione anti Gap», racconta Bijnens. Soltanto l’austriaca Andritz lavora ancora con le compagnie turche alla costruzione della diga, giunta ormai all’85 per cento del completamento. Infatti, nel 2008, gli assicuratori europei hanno sospeso il loro supporto dando 180 giorni di tempo al governo turco per soddisfare 153 requisiti fissati dalla World Bank. Tra questi la protezione dell’ambiente, una ricollocazione ragionata dei villaggi destinati a scomparire e la protezione del patrimonio culturale. La Turchia ha snobbato l’invito a collaborare e nel luglio dell’anno successivo le assicurazioni si sono ritirate dal progetto. Poco dopo anche le tre banche europee finanziatrici, Société Generale, Unicredit e DekaBank, hanno chiuso i rubinetti del credito costringendo la Turchia all’autofinanziamento.
Non solo petrolio. Le guerre più recenti si combattono anche per e con l’’oro blu’. Se trent’anni fa la popolazione credeva che le dighe fossero un segno di sviluppo, presto ci si è resi conto del loro impatto distruttivo. Le risorse di acqua sono state militarizzate e usate come armi in complessi conflitti. «Il governo turco costruisce la diga di Ilisu per controllare il Pkk e i flussi di acqua del Tigri, in Iraq gli ufficiali curdi hanno più volte detto di poter ricorrere al controllo dei flussi d’acqua durante i conflitti con il governo di Baghdad». Negli anni passati i coltivatori della regione di Kirkuk hanno accusato il governo curdo di non concedere loro un sufficiente flusso d’acqua. La continua costruzione di dighe in Kurdistan – come quella di Basara a Delezha, a est di Kirkuk – costringerebbe la popolazione locale a continui spostamenti. «Daesh – prosegue Bijnens – ha usato le dighe per stremare il popolo iracheno». La Turchia non è il solo problema dell’Iraq. «Anche l’Iran – denuncia l’associazione – fa un uso politico dell’acqua, divergendo i corsi dei fiumi a danno della sua stessa popolazione e di quella irachena». La diga di Daryan, in fase di ultimazione, ridurrà di molto la portata del fiume Sirwan, creando una biforcazione interna all’ex Persia. Tra le popolazioni maggiormente danneggiate dal progetto i curdi della regione di Halabjah e gli iracheni del distretto di Diyala, a est del Paese, che vivono essenzialmente di agricoltura.
Dighe usate come armi per fiaccare la popolazione, si è detto. Di questo strumento l’Isis si è servito a Falluja – la città irachena del distretto di Anbar conquistata nel gennaio 2014 – quando si impadronì da subito della vicina diga di Nuaimiyah, strumento fondamentale per disporre del ‘rubinetto’ dell’acqua nei confronti della popolazione. Dopo la riconquista della città «nessuna diga principale è oggi controllata da Daesh – conclude Bijnens – ma sono tutte occupate dal governo iracheno o da quello curdo».