Per Giulio Rimondi, 31 anni, l’amore per la fotografia scatta tardi. Nato a Bologna, si laurea in Lettere e poi comincia a viaggiare senza sosta. In quel momento la macchina fotografica diventa suo fedele compagno. Da allora, Rimondi ha lavorato in Libano, Palestina, Algeria, Iraq e molte altre aree delicate del mondo, seguendo le storie dei migranti e delle città di passaggio del mondo. I suoi servizi sono stati pubblicati, tra gli altri, su New York Times, Repubblica e Le Monde.
La passione per la fotografia è nata per una pura casualitàDa dove nasce la sua passione per la fotografia?
È stata una casualità. Avevo 22 anni e mi trovavo in Sicilia quando ho incontrato la persona che mi ha cambiato la vita: si chiama David Alan Harvey, un fotografo americano che adesso lavora per l’agenzia Magnum. Siamo diventanti amici e l’ho raggiunto per un periodo a New York, in un ambiente stimolante in che mi ha appassionato definitivamente alla fotografia.
Come sceglie i luoghi o le storie su cui lavorare?
Ho una grande passione per il Mediterraneo, i suoi luoghi e le sue storie. È un interesse che nasce forse dai miei studi classici. Se scelgo di realizzare un reportage, chiaramente, devo anche cercare di bilanciare le mie intenzioni con la necessità di stare sulla notizia. In ogni caso, il filo conduttore dei miei lavori, ovunque siano stati realizzati, è la prerogativa di raccontare storie di uomini.
Che tipo di equipaggiamento utilizza di solito?
Mi muovo con un equipaggiamento leggero: una macchina, un obiettivo, un passaporto (con tanti timbri), uno zaino. Oltre alla comodità, c’è anche un problema pratico: in certe situazioni è meglio passare inosservati, quasi da turisti o da persone qualunque, piuttosto che da fotografi al lavoro.
Si muove da solo o con qualche collaboratore?
Sul lavoro sono un solitario, ma ho una rete di contatti sparsi per il Mediterraneo che mi aiutano e mi forniscono supporto direttamente sul terreno. Se una volta erano semplici contatti, adesso molti di loro sono amici. Conoscere i luoghi è importante per sapersi muovere, ma non quanto conoscere le persone.
In base a cosa si sceglie di lavorare in bianco e nero piuttosto che a colori?
C’è una differenza di messaggio, non solo stilistica. Adesso sto sperimentando lavori in cui alterno il bianco e nero al colore. Ricordo alcune foto in città desolate e antiche, in cui solo il bianco e nero avrebbe reso al meglio quel senso di abbandono.
C’è un luogo, tra quelli in cui ha lavorato, che si porta dentro in modo particolare?
Beirut. Ci sono stato per la prima volta nel 2007 e non immaginavo mi colpisse in quel modo. Da allora ci sono tornato spesso realizzando diversi lavori fino a decidere di trasferirmi in questa città.
Quali sono i tempi tecnici per realizzare un lavoro?
Variano molto a seconda del luogo, ma di solito, una volta deciso dove lavorare, impiego una settimana per organizzare tragitti, equipaggiamento e contatti. Poi cerco di stare più tempo possibile sul posto, una media tra i 15 e i 30 giorni. La fase più variabile è quella della distribuzione, una volta rientrato a casa e sistemate le foto. Se tutto va bene, bastano pochi giorni. In altri casi, passano anche sette o otto mesi.
Com’è cambiato il suo occhio da quando ha cominciato a lavorare ad oggi che è un professionista stimato a livello internazionale?
Quando si è giovani e alle prime armi si ha un occhio illuso, il che è magnifico e pericoloso assieme, soprattutto se si fa un servizio giornalistico. Da un punto di vista artistico, invece, quella purezza la si rimpiange non appena la si perde, con gli anni che passano.
Una foto può cambiare il mondo?
Non credo che una foto, da sola, possa cambiare le cose, ma l’uso che ne fanno i media e la sua diffusione ad un pubblico ampio può smuovere qualcosa. In quel senso, la fotografia è azione e smette di essere mera testimonianza. Da un punto di vista più pratico, poi, essendomi trovato spesso in contesti di povertà, ho cercato di aiutare migranti e rifugiati come potevo, dando loro qualcosa o mettendoli in contatto con le persone giuste.
Ad Algeri scampai ad un attentato: ero sotto shock, non ebbi la forza di scattare nemmeno una fotoHa mai avuto paura mentre lavorava?
Ad Algeri, nel 2007. Non stavo lavorando, stavo per prendere un caffè in piazza quando esplose un’autobomba. L’attentato causò 24 morti. Io mi salvai riparandomi dietro al muro di una banca. In quel momento ricordo di non avere avuto la forza per scattare una foto. Ero sotto shock e capii che non avrei mai potuto occuparmi di breaking news.
Esistono foto che è meglio non pubblicare, per ragioni etiche?
Credo di sì. In certi momenti preferisco non scattare, sapendo che quella foto mi potrebbe causare imbarazzi o forti pressioni, perché in alcuni casi gli editori o chi ti commissiona un pezzo può spingere anche in direzione contraria alla tua etica. La scelta del click, invece, è solo mia.
Come vive un fotogiornalista freelance in Italia, oggi?
Male. Siamo alla canna del gas, per quanto successo possano avere i nostri lavori. Viviamo nel precariato più totale.