Ha ancora senso parlare di antimafia oggi? Giacomo Di Girolamo se lo domanda nel suo ultimo libro Contro l’antimafia (Il Saggiatore, 2016). Il giornalista, scrittore e conduttore radiofonico ha sempre manifestato grande interesse verso i fatti di mafia legati al territorio siciliano in cui essi vengono trattati. Arrivando ad una considerazione: raccontare la verità senza per forza spettacolarizzarla.

Prendendo spunto dal suo ultimo articolo apparso su ”IL” lei scrive che ogni anno c’è una grande domanda di libri sulla mafia, nonostante la crisi del mercato editoriale. Perché ritiene che libri di questo tipo siano autoreferenziali e circoscritti a un’élite di giornalisti?

Non vale ovviamente per tutti, ma per molti, purtroppo. Sono autoreferenziali perché nascono dal bisogno di “battere un colpo”, più che di raccontare un fatto. E sono circoscritti ad un’elite perchè, riducendosi a volte nella mera trascrizione di ordinanze o di atti giudiziari, non riescono a fare un racconto popolare dei fatti di mafia. E’ un modo per parlarci tra noi di cose che spesso sappiamo già.

Quanto è difficile oggi scrivere e occuparsi di mafia?

Il difficile è farlo con chiarezza, parlando a tutti, aiutando al comprensione del fenomeno nella sua complessità anziché ridursi a ripetere slogan e formule già note.

Lei denuncia un’informazione spettacolarizzata alla Striscia la notizia e Le Iene nel trattare argomenti di mafia. Da un punto di vista giornalistico, come bisognerebbe raccontare questi fatti?

C’è una distorsione oggi dell’informazione in Italia: una pornografia della cronaca nera, da un lato, e una ricerca alla spettacolarizzazione dall’altro lato, che si risolve, nel migliore dei casi, in un giornalismo di denuncia facile e abbastanza gridato, come ben rappresentano Le Iene e Striscia la notizia. L’audience scambia questi programmi come programmi di inchieste e di informazione, proprio perché il vero giornalismo non è più esercitato. E i fatti di mafia si prestano benissimo a questo tipo di racconto, molto stereotipato. Invece bisognerebbe evitare la scelta del titolo gridato, e cercare di raccontare bene le cose e in profondità, senza per forza cercare il clamore.Bisognerebbe evitare la scelta del titolo gridato, raccontare le cose e in profondità, senza per forza cercare il clamore.

“Ogni volta che mi presentano come giornalista antimafia mi sento un impostore”. Lo afferma lei stesso. Come bisognerebbe indicare allora coloro che si occupano di mafia? C’è un modello da seguire?

Ma cosa significa occuparsi di mafia? Io sono giornalista e basta. Vivendo in Sicilia occidentale, parlo di mafia e di Matteo Messina Denaro, perché ce l’ho accanto. E’ una cosa naturale. La stessa cosa vale per il magistrato che cura un’indagine di mafia. Fa semplicemente il suo lavoro, e basta. O il prete che contrasta la criminalità del suo quartiere. E’ un bravo sacerdote, e basta. Purtroppo, nel nostro racconto dell’antimafia, abbiamo cercato sempre di costruire icone (il prete coraggio, il giornalista minacciato, il giudice scortato…), a volte idoli, che ci hanno allontanato dal ragionamento sulla mafia, e anzi ci hanno ammorbato di conformismo. Io non voglio essere un giornalista antimafia. Voglio essere un giornalista bravo. E basta. Io non voglio essere un giornalista antimafia. Voglio essere un giornalista bravo. E basta.

Per raccontare scoop o notizie inedite bisogna essere per forza amici dei magistrati? Non si rischia in tal caso di instaurare un rapporto di clientelismo?

Molti giornalisti hanno costruito la loro carriera grazie alla stretta amicizia con alcuni magistrati che passano loro le carte giudiziarie. In cambio questi giornalisti si prestano a fare da “ufficio stampa” dei magistrati, ne esaltano le gesta, le tecniche investigative. Questo rapporto distorto – e per quanto riguarda gli atti di indagine, illegale – crea un danno, perchè appiattisce il racconto di alcuni fatti solo sugli atti di indagine, cioè sugli atti dell’accusa, non dando spazio ad altre verità. Le notizie invece vanno raccolte nel territorio, per strada, tra la gente, non nei corridoi delle Procure.

Perché ha dedicato un libro a quella che lei definisce “la mafia dell’antimafia”?

Ho dedicato un libro non alla mafia dell’antimafia – che è un espressione troppo generalizzata – ma al racconto, intimo e personale, di una mia paura. Quella di non sapere più distinguere, a volte, mafia e antimafia, di aver sempre lottato da una parte, e di aver capito, tardi, che in questa parte c’erano molti profittatori, gente senza scrupoli, a volte delle persone davvero disoneste. Questo è “Contro l’antimafia”. Il racconto di una sconfitta: quella dell’antimafia, che ha ridotto la memoria a impostura, la legalità a merce di scambio per piccoli e grandi affari