“Da piccola mi piaceva guardare sempre ad Est, non verso Ovest come facevano tutti. Non mi interessava il tramonto ma volevo individuare dove faceva buio, per capire il punto dell’origine dell’oscurità, del male”. Ottavia Piccolo, nei panni della grande filosofa e studiosa di regimi totalitari Hannah Arendt, congeda così la sala piena del Piccolo Teatro Grassi di Milano. Gli spettatori, avvolti nel velluto rosso delle pareti e delle poltrone, si immergono in ottanta minuti di dialogo serrato tra la Arendt e il gerarca nazista Adolf Eichmann, interpretato da Paolo Pierobon. La sceneggiatura di Stefano Massini e la regia di Mauro Avogadro portano in scena le pagine de La banalità del male, il libro in cui la Arendt ripercorre il processo, svolto a Gerusalemme nel 1961, che condannò a morte il “mostro nazista”.

Eichmann. Dove inizia la notte. Le Pera (2)

Paolo Pierobon e Ottavia Piccolo

Su un palcoscenico spoglio, a tinte prevalentemente scure – a dominare è un grigio dalle sfumature argentee – avviene l’incontro scontro che la storia non ha mai permesso, contornato dalle immagini di repertorio proiettate sullo sfondo, dai volti dei conniventi con la “soluzione finale”, dal fischio del treno, dallo stridere sulle rotaie, dal vociare inconsapevole di vagoni affollati, dalla cascata di scarpe nere, uniche superstiti dell’atrocità delle camere a gas. Hannah Arendt può finalmente rivolgere le domande che avrebbe voluto porre ad Eichmann durante il processo seguito come inviata del New Yorker, cercare di capire cosa fa sì che un uomo normale possa commettere un male così atroce, inspiegabile, che lo porta a gestire il trasporto di milioni di persone verso i campi di concentramento.

WhatsApp Image 2022-02-25 at 09.06.32

Piccolo Teatro Grassi di Milano

Piccolo Teatro Grassi di Milano

Piccolo Teatro Grassi di Milano, cortile interno

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’opposizione irriducibile tra i due si rispecchia nella divisione iniziale dello spazio: gli unici oggetti illuminati sono la divisa nazista del gerarca sulla sinistra e le giacche con la stella di David e la camicia a righe appese sulla destra.  Il dialogo inizia attorno ad un tavolo spoglio per poi animarsi. Il peso dei temi trattati agita i protagonisti che iniziano ad occupare ogni angolo dello spazio. Il palco diventa un tribunale, per poi tornare a far sedere i contendenti attorno al tavolo, fino a trasformarsi in uno specchio che fa spogliare Eichmann, mostrandone la sua vera natura.

Hannah Arendt: «Da piccola mi piaceva guardare sempre ad est, non verso ovest come facevano tutti. Non mi interessava il tramonto ma volevo individuare dove faceva buio, per capire il punto dell’origine dell’oscurità, del male».

Non resta che appurare con sconcerto che Eichmann, quello che al processo viene rinchiuso in una teca di vetro, non è altro che un uomo mediocre, banale, che ha agito non in quanto mosso da manie di protagonismo, da grandi piani malvagi o dall’odio nutrito nei confronti degli ebrei, ma solo per la sua volontà di ricoprire una posizione di prestigio, di diventare una rotella dell’ingranaggio, di far parte della tentacolare macchina statale del Terzo Reich. La logica stringente e le domande calzanti della Arendt smascherano il presunto mostro che non ha problemi ad ammettere che il suo agire è stato mosso dalla volontà sovrana di fare carriera, di conquistare l’ufficio centrale di Berlino passando attraverso la gestione degli ebrei a Praga e Vienna, di avere una sua foto in ufficio non solo con Himmler ma con Hitler in persona.

Eichmann non è un assassino, ripudia la morte, racconta il suo fastidio nel vedere due capre morte asfissiate dal monossido di carbonio, lo stesso usato nelle camere a gas. Allo spettatore non resta che scoprire che il punto esatto dove inizia la notte è più squallido del previsto. I confini tra le categorie di bene e di male diventano sempre più labili, si contaminano e relativizzano in base al punto di vista, lo stesso che fa ammettere ad Eichmann di essere stato un cittadino modello, che ha sempre rispettato le leggi, quelle del terzo Reich. La Shoah viene ridotta ad una scelta presa poco prima di una cena al gusto di stufato.

In queste sconcertanti dichiarazioni di mediocrità, in cui veramente chiunque potrebbe prendere queste decisioni così gravi e commettere un male irreparabile, la Arendt sottolinea come il male sia “stupido”, insensato, privo di spessore o profondità, e ciò si rispecchia dal linguaggio usato dal nazismo, caratterizzato da un’ipocrisia che trasforma un genocidio in “soluzione finale”.

WhatsApp Image 2022-02-25 at 09.05.56 (1)

oggetti di scena all’interno del Piccolo Teatro

 

Per la Arendt il discrimen tra bene e male diventa la dignità, un valore che appartiene “a chi non si sente inutile”, a chi ancora e nonostante tutto porta avanti i suoi ideali, a chi crede in qualcosa e fa di tutto per difenderlo, proprio come la studentessa ventenne che dalla finestra dell’università di Berlino getta a pioggia volantini che smascherano “Hitler l’assassino”, prima di essere torturata e decapitata.

Questo è il messaggio attuale che continua ad avere un’opera che ha fatto molto discutere al momento dell’uscita, nel 1963, “uno dei testi che ha fatto la metà del Novecento e continua ad essere lancinante e attualissimo” come sottolinea Fausto Colombo, docente e studioso dei media:«Ne deriva che ciascuno di noi potrebbe essere al posto di Eichmann, noi non possiamo essere sicuri su cosa faremo nella sua situazione, questa è la cosa atroce per il lettore consapevole del libro, perché avvisa che possiamo essere chiamati in qualsiasi momento a compiere delle scelte morali molto gravi e non possiamo essere preventivamente sicuri che faremo la scelta moralmente più giusta. È un ammonimento a prepararsi davanti al male che posizione prendiamo».

Hannah Arendt insegna a non girare lo sguardo dall’altra parte, a non soffermarsi solo sulla parte dell’ultimo bagliore di luce, il tramonto, ma sul buio fitto per cercare di destrutturarlo, comprenderlo e smascherarlo. Il male è pericoloso proprio perché è alla portata di tutti, è un seme che potrebbe germogliare in chiunque, motivato dalle più banali motivazioni. Solo la consapevolezza della sua fisionomia, della dignità della persona che prescinde dal ruolo, non fa abbassare la guardia ed evitare che un male così mediocre possa degenerare in conseguenze estreme.