Qualche canna in gioventù non ha mai fatto male a nessuno. Quante volte si è sentita una frase del genere? Una nuova ricerca pare, però, smentire questo luogo comune: basterebbero pochi spinelli per alterare la struttura del cervello negli adolescenti.  L’indagine è stata pubblicata sulla rivista Journal of Neuroscience dai ricercatori dell’Università del Vermont, negli Stati Uniti. «Sembra uno studio fatto molto bene – commenta Yuri Bozzi, docente di fisiologia al Centro Interdipartimentale Mente/Cervello (Cimec) dell’Università di Trento –. È stato realizzato dal consorzio “Imagen”, molto accreditato nello studio dell’immagine cerebrale».

Un’indagine pubblicata sulla rivista Journal of Neuroscience dai ricercatori dell’Università del Vermont, negli Stati Uniti, ha scoperto che bastano pochi spinelli per alterare la struttura del cervello negli adolescenti Già si sapeva che la cannabis danneggiasse il cervello degli adolescenti nei meccanismi di apprendimento e memoria, ma fino ad oggi si ignorava che potesse produrre alterazioni anche nei consumatori occasionali. «Quello che hanno trovato gli autori della ricerca – spiega Bozzi – è una variazione del volume cerebrale significativamente diversa tra i soggetti fumatori e i soggetti di controllo in due aree chiave: una è l’ippocampo, quindi l’area coinvolta nei processi cognitivi di memoria, principalmente memoria spaziale, il ricordo dei luoghi già visitati; l’altra è una regione che si chiama amigdala, che è un po’ il centro di controllo delle nostre emozioni».

L’aspetto interessante della ricerca è che la marijuana sembrerebbe produrre un aumento della sostanza grigia: «Ci si sarebbe aspettato una diminuzione del volume cerebrale – ipotizza il docente –, invece c’è un aumento». Questo, però, non è un segno di migliore funzionamento del cervello: «È da escludere – avverte Bozzi – il fatto che l’esposizione alla cannabis abbia portato ad un numero maggiore di cellule nervose, perché, a parte piccole eccezioni, i neuroni non sono in grado di moltiplicarsi, quindi il cervello non cresce grazie alla formazione di nuove cellule nervose: questo avviene soltanto durante lo sviluppo embrionale».

In pratica la marijuana interferirebbe con il processo di selezione delle connessioni fra le cellule nervose, processo che avviene durante lo sviluppo del cervello per renderlo più efficiente. L’aumento della materia grigia indicherebbe proprio questo mancato sfoltimento delle connessioni meno utili.

Già uno studio dell’Università di Montreal, in Canada, pubblicato sull’American Journal of Psychiatry nell’ottobre 2018, aveva messo in luce come negli adolescenti la cannabis fosse molto più dannosa dell’alcol. «Non sono affatto stupito – commenta Silvio Garattini, illustre farmacologo fondatore dell’Istituto Mario Negri –. Il cervello dei giovani è in via di sviluppo e perciò è molto sensibile». Già uno studio dell’Università di Montreal, in Canada, pubblicato sull’American Journal of Psychiatry nell’ottobre 2018, aveva messo in luce come negli adolescenti la cannabis fosse molto più dannosa dell’alcol Lo studio ha seguito circa 3.800 adolescenti canadesi per quattro anni: è emerso che a un aumento del consumo di cannabis corrispondeva un punteggio più basso nei test cognitivi non solo durante lo stesso anno ma anche in quelli successivi, fatto che non è stato notato nel caso del consumo di alcol. Sembra quindi che gli effetti della marijuana sul cervello degli adolescenti siano duraturi, in particolare quelli sul controllo inibitorio, ovvero la capacità di “trattenersi” dal compiere azioni o scelte di tipo impulsivo, noto come fattore di rischio per l’instaurarsi di altre dipendenze. Non ha quindi tutti i torti Garattini nel sostenere che “ogni droga è spesso la porta per altre droghe”.

I danni causati dalla canapa sono ovviamente anche altri: «Oltre ai noti effetti sull’attenzione e sulla capacità di apprendimento – spiega il farmacologo –, alcuni studi mostrano che chi ha usato cannabis nell’adolescenza ha più probabilità di sviluppare malattie mentali anche a distanza di 15 anni».

In realtà gli effetti negativi dipendono anche dal modo in cui la marijuana viene assunta: «Se si fuma produce sostanze cancerogene come la sigaretta», ricorda Garattini. Ovviamente conta molto anche il livello di Thc presente nella sostanza: più è alto, più la cannabis risulterà dannosa. Proprio perché ora circolano spinelli sempre più potenti, Garattini è restio a usare la definizione di “droga leggera”: «È un termine improprio per via del fatto che concentrazioni di Thc molto elevate rendono la sostanza particolarmente tossica».

La presenza di canne con un principio attivo potenziato è stata notata anche da Elena Chiarion, psicologa presso la Cooperativa sociale “Promozione Umana”: «Il narcotrafficante mette sul mercato una sostanza che dà un’assuefazione fortissima precoce, per cui per l’adolescente è facile passare ad altro». La donna non manca di criticare i circuiti legali di vendita della cannabis light presenti in Italia. Innanzitutto, perché danno ai ragazzi facile accesso a delle sostanze che poi possono essere successivamente potenziate in maniera casalinga. In secondo luogo, perché hanno un effetto di banalizzazione dei danni: «Passa l’idea che è normale usare certe sostanze – ammonisce la psicologa –. C’è una società adulta che tollera e tollera tantissimo, quindi non si pone neanche il problema che su una determinata tipologia di persona questo tipo di uso o abuso possa creare delle difficoltà grosse».

La psicologa Elena Chiarion avverte: «L’uso delle canne e delle sostanze aumenta la probabilità di esordi anche psicotici, per cui questo poi diventa un allarme perché a 15-16 anni non finisci più in pediatria e nemmeno in psichiatria» La Chiarion verifica le conseguenze di certe attività considerate erroneamente innocui passatempi giovanili: «L’uso delle canne e delle sostanze aumenta la probabilità di esordi anche psicotici, per cui questo poi diventa un allarme perché a 15-16 anni non finisci più in pediatria e nemmeno in psichiatria. Perché questi giovani, in questa fascia d’età, in questa terra di mezzo, non hanno neanche dei servizi sanitari a cui riferirsi».

Un dato allarmante, notato anche dalla psicologa, è l’abbassamento dell’età di avvicinamento alla droga a 12 anni: «Stiamo assistendo a una richiesta di aiuto precoce, da parte di ragazzini davvero molto giovani e questo ci sta veramente preoccupando».

I fattori di rischio sono molteplici e diversi: «La dipendenza – spiega Chiarion – soprattutto nei giovanissimi è la risposta a un disagio contemporaneo. Riscontriamo negli adolescenti e nei preadolescenti una fatica legata prevalentemente a forme depressive, a forme di noia non ben identificabili, alla sensazione che la vita sia vuota. Questa cultura della merce, dell’avere, del possedere sembra offrire degli oggetti che poi continuano a creare nuovi vuoti, per cui queste persone sono eternamente insoddisfatte».

Altro elemento di rischio è quella che la psicologa chiama “patologia del desiderio”: «Questi giovanissimi non sanno desiderare, per loro è difficile vivere la dimensione dell’incertezza, sembra che di fronte a ogni limite non sappiano reggere minimamente la frustrazione. Si vede proprio una fatica di questi giovani ad avere degli interessi, dei desideri, un qualcosa a cui aspirare».

Non mancano ovviamente le classiche disfunzioni familiari all’origine di certi disagi giovanili: «Questi ragazzi – racconta Chiarion – da una parte vengono trattati come dei piccoli adulti, per cui vengono responsabilizzati molto presto: per esempio, hanno le chiavi di casa, si muovono autonomamente, escono quando vogliono, rientrano quando vogliono; per contro, poi, non sono autonomi su nulla. Insomma, sembra che i giovani non riescano ad avere la loro età né per se stessi né per i loro genitori».

In particolare la psicologa lamenta l’assenza dei padri: «Vedo spesso uomini che faticano molto ad avere l’autorevolezza paterna e quindi anche quella capacità di insegnare che ci sono dei no, che ci sono dei confini. Vedo molti padri incapaci di sostenere il conflitto». Nemmeno le madri, però, a detta di Chiarion sono del tutto prive di colpe: «Vedo donne iperprotettive che a volte confondono il figlio maschio con il partner, quindi la carenza che hanno nel partner la riversano sul figlio che diventa una sorta di prolungamento affettivo». In generale la psicologa riscontra una crisi dell’adultità, una crisi nell’essere veramente educatori: «In molti casi la famiglia smette di diventare un luogo nel quale ci sono due adulti che guidano, sorreggono, si scontrano e si confrontano con il giovane. Spesso il figlio è il piccolo boss della casa, il capetto, quello che alza la voce, quello che mette le mani addosso a chi gli dice no».

Chiarion vede anche un influsso della cultura narcisistica in molte scelte dei genitori: «A volte sembra che per due adulti oggi il generare sia l’emblema della perfezione di sé e quindi il figlio non è un “altro da me” ma un “prolungamento di me”. Quindi, tutto quello che non ho fatto io lo deve fare lui. Siccome io sono stato privato di qualcosa lui non deve sentire la mancanza di nulla». Tipica della cultura narcisistica in cui viviamo è anche una certa esaltazione della giovinezza: «Il figlio – prosegue la donna – rappresenta tutto quello che l’avanzare della mia età potrebbe non permettermi più, per cui io gli concedo quello che in realtà vorrei concedere a me». La psicologa vede un’unica soluzione per chiunque abbia una funzione di guida nei confronti degli adolescenti, dal genitore all’insegnante, fino all’allenatore sportivo: assumersi la responsabilità del ruolo di prendersi cura di chi è più piccolo, accettando la fatica educativa che questo compito comporta.