Cowboy Carter è l’ultimo capolavoro di un’ora e venti della produzione musicale di Beyoncé. Sequel del precedente album, Renaissance, la posa di copertina è praticamente identica, con la superstar seduta su un cavallo vestita di tinte che richiamano i colori della bandiera americana, retta da un’asta stretta nella mano. Inoltre, le doppie “II” presenti nei titoli dei diversi brani sono un richiamo evidente all’ Act 2. Più che un esempio di patriottismo, l’album è una presa di posizione sulla lotta per i diritti civili. Si tratta di un’operazione simile a quella di Bruce Springsteen con la sua Born in the USA, inno di protesta per la guerra in Vietnam, sottofondo perfetto per i comizi elettorali nelle campagne presidenziali soprattutto dei democratici. Cowboy Carter è un viaggio composto da 27 brani, alcuni dei quali sono preceduti da tracce introduttive indipendenti di qualche manciata di secondi. Non c’è un solo genere in cui poter incasellare questa produzione, sicuramente i richiami più evidenti sono quelli delle sonorità country, soul, urban e un pizzico di folk. La cantante si riappropria delle radici della musica nera. Questo stile variegato non è molto popolare in Italia, ma l’album sta comunque scalando le classifiche in diverse charts, proprio perché uno dei suoi punti di forza è quello di poterlo chiamare con diversi generi. Ogni suono è ben scandito e le persone vengono trasportate all’interno del mondo della regina del pop.

Nell’ultimo disco di Beyoncé, sonorità cntry, soul, urban, folk e un omaggio alle antiche arie del Barocco italiano

«Beyoncé in Italia è meno celebre in Italia di quanto non sia nel mondo perché la sua proposta è più strettamente musica, rispetto a una Taylor Swift e a una Rhianna. Ciò che fa a livello di immagine extra-musicale attecchisce molto in America» spiega Stefano Lombardi Vallauri, docente alla Iulm e musicologo specializzato in musica contemporanea in tutti i generi, dalla classica dalla popolare. La sua popolarità negli Stati Uniti è dovuta anche alla differente percezione dei generi musicali: «Lì il country è tradizionalmente conservatore, mentre la musica black, senza essere di sinistra, è comunque sovversiva e dalla parte di categorie sociali subalterne. Sono due generi che sono sempre stati in guerra, ma lei li unisce e lo fa dal lato black. Un precedente lo vedo con Stevie Wonder, che col suo brano I ain’t gonna stand for it, in cui fece scalpore l’appropriazione del country dal black».

Il disco è stato anticipato da due tracce: 16 Carriages e Texas Hold’Em. La prima canzone è un inno di lotta che propone all’ascoltatore di lasciarsi alle spalle l’infanzia per guardare a un futuro per perseguire i propri sogni, una riflessione sul passato che apre una prospettiva sull’avvenire. Il secondo parte dal nome del paese natale di Beyoncé, già presentato nel titolo. È una scommessa country e letterale, dato che il Texas hold’em è un gioco d’azzardo simile al poker, che ricorda un po’ il sound di Will The Cicle Be Unbroken dei Nitty Gritty Dirt Band, specialmente dopo il primo minuto e mezzo. L’invito è vivere il presente.

“Nothin’ really ends”: così si apre la prima frase di American Requiem, il brano che inagura l’album. Sono 5 minuti e 23 di richiami al vecchio e puro stile country western, una perfetta colonna sonora per i film di Sergio Leone insomma.  Il ritmo è sicuramente in crescendo, e se la prima parte si poteva definire country, da metà del brano il genere è totalmente diverso e molto più urban, pop e soul. La chiusura è una preghiera – Amen –. Un po’ come quando ai concerti ci sono i medley, la stessa cosa accade in questa canzone: il ritmo rallenta e il finale accompagna l’ascoltatore fuori da questo primo mondo per introdurlo delicatamente in quello successivo, dettato dal secondo brano. Non a caso il brano che segue è una cover, un inno ai diritti civili. Una canzone che era stata scritta nel 1968 da Paul McCartney ispirato a scrivere un testo per alleviare la tensione razziale e a seguito della morte di Martin Luther King. Purtroppo, i temi sono ancora ad oggi attuali e Beyoncé si è messa in prima linea per portare avanti il medesimo messaggio. Alla cover hanno partecipato anche voci come quelle di Tanner Adel, Brittney Spencer, Tiera Kennedy e Reyna Roberts. Un’altra cover è quella di Jolene di Dolly Parton, regina indiscussa della musica country. Se la Parton nel 1974 pregava la rivale Jolene di lasciare suo marito, Beyoncé cambia le parole e la mette in guardia trasformando questo messaggio in un avvertimento.

L’album è pieno di sorprese. È presente anche una ninna nanna: Protector. Beyoncé si spoglia della veste di cantante internazionale e canta una dolce canzone per la figlia Rumi, la cui voce è presente all’interno del singolo. Cowboy Carter è pieno di collaborazioni che arricchiscono lo stile country, soul e a tratti gospel della produzione musicale, tra i nomi più noti certamente anche quelli di Post Malone e Miley Cyrus. Il prodotto è molto intimo ma capace di parlare a chiunque. Le canzoni si adattano a ogni momento della giornata oltre che ad ogni genere. Ogni brano è una scoperta unica.

Nel brano Daughter, dedicato al padre, si inserisce l’aria italiana Caro mio ben, un susseguirsi di versi in italiano risalenti al Settecento. Sebbene l’ipotesi più plausibile sia quella che vede Tommaso Giordani, compositore napoletano, come autore, alcuni sostengono che la melodia proviene da George Friedrich Handel, che aveva passato gran parte della sua tarda giovinezza in Italia. Handel, tedesco, aveva potuto così conoscere lo stile musicale italiano, in primo piano per l’opera, che avrebbe poi trasposto una volta in Inghilterra, dove sarebbe avvenuto il suo trionfo.  «Parliamo di pezzo classico già fatto proprio dalla musica pop, Sting, Mina, anche da Pavarotti, il più pop dei musicisti classici. Questa ripresa non è però una novità, anche se è più notevole perché fatta da una musicista nera» spiega Vallauri. Caro Mio Ben «potrebbe risultare anonima, se confrontata con l’Habanera di Bizet, il Bolero di Ravel o l’aria della Regina della Notte di Mozart. Sei apporta alcune modifiche: Beyoncé lo canta in tonalità minore, non maggiore come di solito». In merito al refuso dell’artista, che canta “languisci”, invece che “languisce” – la “e” in inglese si legge come “i” «si tratta di un errore in cui incappano anche alcuni cantanti classici. Visto che, però, non ci troviamo in un contesto filologico, ma in una canzone, quindi il problema non si pone». Di certo, questo pezzo di musica classica non è mai stato cercato e ascoltato come ora: «Inserendolo in Daughter, Beyoncé non si è impadronisce del pezzo in modo tale che ora è suo. Da sempre gli artisti hanno preso concetti preesistenti e ne hanno fatto quello che volevano, giocando con e sulla tradizione».