Non vedrò mai le strade del mio paesino come chi vi passa per la prima volta. Qui ho sovrapposto tutti gli anni della mia vita. Vedo il percorso per andare alle scuole elementari e mia madre che mi accompagna, le pedalate che da adolescente facevo per raggiungere casa della mia migliore amica, i primi chilometri guidando, le infinite chiacchierate in auto con le amiche.
Soprattutto, ovunque mi giri vedo lei. Per me Caravate è lei. È il suo giardino e la scuola verso la quale mi accompagnava leggendo a voce alta Le cronache di Narnia (quanto mi infuriai quando la mia insegnante sostenne che non era possibile leggere camminando). È un cespuglio di fiori a caso davanti al quale si sarebbe fermata, o magari l’ha fatto davvero, solo per chiedersi che pianta fosse. È l’oratorio dove faceva la catechista e la chiesa dove andava ogni domenica. È il fiumiciattolo, il Viganella, dove sono caduta facendola spaventare a morte.
Caravate è mia madre. Mia madre che ha vissuto ed è morta in questo piccolo comune del Varesotto. Lei lo amava, pur rattristandosi del a causa delfreddo del clima e nel cuore delle persone. Lei che aveva sangue sardo e si riaccendeva quando da bambina passava le estati a San Sperate, dai suoi nonni analfabeti che però sapevano amare come nessun altro. Eppure, aveva costruito tutta la sua vita a Caravate, a circa sette chilometri dalla sponda lombarda del Lago Maggiore e a 30 dal confine con la Svizzera. Anzi, l’Isvizzera, come dicono gli anziani del posto, quel magico luogo (Paese fiabesco?) dove la benzina costa meno.
Casa Bernardelli è in centro paese, sopra la piazza, nel quartiere detto Stalasc (traducibile come “Stallacce”). Nell’Ottocento qui viveva il coadiutore, una sorta di aiutante del prete. La proprietà curia era ed è composta da un cortile celato su tutti i lati. Sulla strada si affacciava la casa, su due lati vi sono i muri delle case vicine. Verso Nord il giardino era coperto da una cascina e da una stalla. Il coadiutore aveva in gestione anche un piccolo appezzamento di terra adibito a vigna. Da ogni angolo del terreno si produceva qualcosa. Verso la fine del secolo la curia affitta l’abitazione. I miei bisnonni vi si trasferiscono con i loro figli. Nel corso del Novecento sono passati tra queste mura quasi tutti i componenti di quella famiglia così grande, anche solo per soggiorni temporanei. Nel 1960 nonno Antonio compra la proprietà. Da allora tutto è cambiato, e della casa del coadiutore sono rimaste solo due colonne all’ingresso. Negli anni Settanta la casa viene demolita e ricostruita, la stessa sorte toccherà alla stalla e infine alla cascina. Immagino i Bernardelli che prima dell’inizio dei lavori si sorridono tra loro e ricordano la leggenda sulla casa, tra la scaramanzia e lo scetticismo. «Si dice che i preti abbiano nascosto un tesoro qui, ogni muro che si abbatte potrebbe averlo celato finora» mi diceva mia madre quando da bambina mi aggiravo tra gru e betoniere. Invece abbiamo trovato solo i resti di due camini da cucina. Belli, ma il tesoro dei preti…
Le vecchie foto mi paiono provenienti da una dimensione alternativa. La casa in cui vivo era adibita a serra. Gli amati gerani di mio nonno trovavano rifugio qui durante l’inverno, in mezzo a zappe e vasi, gli attrezzi del mestiere del fiorista Antonio. Per rendere l’idea dello stato del cortile si può solo evocare la foresta amazzonica. Un ecosistema inspiegabile permetteva la sopravvivenza di alberi da frutto, piante da orto e palme (albero che fa capolino da numerosi giardini del comune ad essere sinceri, in barba alle famose ed effimere palme milanesi di piazza Duomo). In mezzo a quel caotico magico verde un uomo con la pelle scurita dal sole e giusto qualche capello, bianco come la sua canottiera. Non gli sono sopravvissute quelle piante che amava come figlie. Tranne una, una lavanda nata da un unico rametto. Il suo primo nipote aveva insistito così tanto perché lo piantasse. «Non crescerà nulla, te lo dico io». Invece aveva dovuto cambiare prima un vaso e poi un altro. Vasi sempre più grandi, finché un giorno, «non ho più nulla che la contenga», l’aveva dovuta piantare in giardino. Ma non si era fermata ed era diventato un cespuglio profumato così grande e ronzante d’api che andava regolarmente potato. Era la magia di Tunin, nel suo cortile in cui il tempo si fermava e la terra faceva germogliare qualsiasi cosa. Oltre quel portone, il resto del mondo.
Gli abitanti sono 2541, secondo l’ultimo censimento: Con un’unica lista civica candidata alle ultime elezioni, Caravate confina con sei diversi comuni ed è attraversata dalla strada provinciale. Questa conformazione urbanistica si riflette in un via vai di auto nelle ore di punta e in un interminabile iter burocratico con conseguente attesa quando si tratta di riparazioni al manto stradale.
Tre fermate del pullman, che però passa solo quattro volte al giorno, e nessuna stazione, il dato numerico più rilevante è il numero di chiese pro capite, una ogni 423 abitanti. Gli edifici sono infatti sei, ma di essi solo due non sono attualmente in uso come luogo di culto. Si tratta della chiesetta di epoca carolingia sul colle San Clemente, al confine nord con Laveno Mombello, e dell’antica chiesa di Sant’Agostino in centro paese. Quest’ultima, mi hanno raccontato i miei genitori, risale probabilmente all’anno 1000, come si è scoperto solo negli anni ’80, dopo essere stata utilizzata prima come cappella dell’asilo e poi come ripostiglio per la legna per più anni di quanti si voglia ammettere. Durante gli scavi si è portato alla luce anche l’antico cimitero carolingio che la circonda, all’interno del piccolo parco dove poco prima era sorta la biblioteca comunale (che negli anni della mia vita ha subito un declino nel numero già esiguo di frequentatori). Ricordo con un certo brivido le ore a giocare a nascondino con i miei fratelli in quel cortile, mentre i nostri genitori chiacchieravano con la bibliotecaria. «Però conta fino a 100» dicevo a mio fratello e poi, in quel luogo sprovvisto di nascondigli degni di quel nome, mi stendevo in quelle buffe fosse con il bordo incorniciato da pietre. Qualche metro sotto di me giacevano i resti di qualcuno vissuto 1200 anni prima. Sant’Agostino è però onorato nel paese da un’altra chiesa, a ben 60 metri di distanza dall’altra attraversando la strada e detta “nuova”, in quanto ottocentesca. Le celebrazioni della messa avvengono in orari e giorni diversi qui oppure nella chiesa San Giovanni Battista e Maurizio, anche detta Parrocchiale. Ben più grande delle precedenti, sempre giovincella ottocentesca, svetta su una rocca da cui domina tutto il paese e risplende illuminata, forse in modo eccessivo, durante la notte. Il caravatese stanco che vive “in centro”, come la mia famiglia, e torna al termine di una lunga giornata, si sente già a casa quando si staglia all’orizzonte il profilo delLa Chiesa (proprio con le maiuscole, non è un refuso, non è una chiesa, è La Chiesa: dove si è stati battezzati, cresimati, comunati, ci si sposa e se si è “fortunati” si assisterà alla propria ultima messa da una comoda posizione supina). Tutti i giorni si celebrano invece liturgie a Santa Maria del Sasso, nel convento dei Padri Passionisti ai margini di uno splendido parco in cui ricordo distintamente di aver lasciato e mai trovato una borraccia ben 16 anni fa. L’evento non mi influenza nel riconoscere la bellezza e la varietà di colori e specie florovivaistiche del parco (si sente che sono la nipote di un fiorista), che accompagnano lungo un percorso a gradini e celano al viandante distratto le cappelle della Via Crucis. Infine, nella stessa frazione del convento, Fornazze, si trova la chiesa di Santa Lucia. Dedicata alla patrona dei non vedenti si trova proprio annessa a Villa Letizia, adibita dai proprietari ad istituto per ciechi, rimasto in funzione tra alterne gestioni fino al 2001. La vicenda di Villa Letizia si è complicata negli anni, ma la questione che va esposta a questo punto è un’altra. Il numero delle chiese denuncia un fervore religioso che non rispecchia la realtà. Il vescovo di Como, in quest’isola di liturgia romana nel mare dei comuni di rito ambrosiano, ha mandato parroci che hanno avuto popolarità e lunghezze dei mandati diversi tra loro. La progressione pare però negativa. Forse scaldare la grande chiesa parrocchiale per un manipolo di fedeli non vale nemmeno il guadagno delle offerte di un anno. La soluzione è stata accorpare la parrocchia di Caravate con quella di Gemonio e dotarle di un unico sacerdote che celebra la liturgia domenicale a settimane alterne in un comune o nell’altro.
Molto diverso da ciò che accadeva ai tempi di mia madre. Era il finire degli anni Cinquanta: raramente un’auto circolava tra gli sguardi stupiti degli astanti sulle strade polverose dove scorrazzava un manipolo di bambini altrettanto impolverati con le ginocchia sbucciate e le biciclette sempre al seguito. L’ultimo giorno della settimana i bimbi venivano accuratamente lavati e sfregati e, con la pelle arrossata, infilati nei “vestiti della domenica” per la Santa Messa in chiesa parrocchiale. Alcuni di loro si lamentano tuttora del pizzicore dei colletti e del fastidio di non poter correre e giocare in abitini candidi e scomodi. Altri semplicemente ricordano il sacro terrore infuso in loro dal mitico don Mario Sessa che sapeva gelare con lo sguardo chi rumoreggiava, ma comunque non gli negava anche una sgridata e uno scappellotto o due. Mia madre raccontava che, crescendo, aveva imparato ad apprezzare quell’omone energico dalla voce profonda che era stato presente in tanti momenti della sua vita. Aveva persino celebrato il suo matrimonio e il funerale della zia che l’aveva cresciuta. Zia Maria, in realtà una prozia, secondo la leggenda desiderava morire nel Venerdì Santo, ma il sacerdote gliel’aveva impedito, «che superbia, morire nel giorno in cui è morto nostro Signore! Glielo proibisco». Così zia Maria è morta il giorno di Pasqua, molto più discreto. Il successore di don Mario, don Savio, con i suoi capelli prima grigi e poi bianchi e il tono pacato, si era fatto subito ben volere, raccogliendo attorno a sé sull’altare un bianco stuolo di chierichetti. Ah, la golden age del cattolicesimo caravatese! Quando è partito per il Perù molti piangevano, durante uno dei suoi tradizionali “pranzi comunitari” in oratorio, tra piatti scompagnati e stoviglie piene di cibi di regioni e Stati diversi, che riflettevano quel mosaico di antiche provenienze degli abitanti del comune. Da allora, a parte la breve parentesi del giovane don Silvio, tra gite per i ragazzi dell’oratorio estivo e tentativi della genitrice di convertirmi, la comunità riunita attorno alla chiesa si è sgretolata. Sarà la disaffezione secolare, la mancanza di un parroco solo per Caravate o il tradimento con una chiesa diversa.
Dalla seconda metà del Novecento molte altre cose sono cambiate. Il settore produttivo principale un tempo era quell’agricoltura che odora di letame, colora il paesaggio dell’oro del grano e permette ai bambini traumi come essere inseguiti dalle galline o vedere ignari coniglietti e agnellini macellati con nonchalance nel cortile di casa, «però sulla terra che così concima». Chi è cresciuto in quegli anni ha visto il paese cambiare drasticamente sotto questo punto di vista, come si è riflesso anche nel suo aspetto.
Il primo passo è nel 1944 e in realtà i miei genitori non sono ancora nati, ma la verve narrativa di mia madre non le ha impedito di raccontarmelo come una fiaba. Aras Malapelle, milanese, si è trasferita da poco a Caravate per vivere con il marito, Gabriele “Gino” Frattini. I due aprono una piccola bottega in un rustico assumendo tre operai. Il gruppo rifinisce e croma accessori per il bagno in quattro vasche in cui argenta armadietti e porta-bicchieri. Pochi anni dopo Gino muore, ma l’attività è già cresciuta e continuerà a farlo sotto la guida di Aras, imprenditrice e benefattrice in tutta la provincia. Conduce l’Industria Nazionale Degli Accessori (INDA) ad avere filiali in Spagna, Svizzera, Austria, Francia e Olanda. Arreda le toilette di alberghi internazionali e navi della flotta italiana. Crea una linea di accessori adatti a portatori di handicap. In parallelo finanzia la costruzione della scuola media, che porta il nome suo e del marito, e la fondazione della cooperativa sociale Anaconda di Varese. Alla sua morte la Inda dà lavoro a 350 impiegati ed operai solo a Caravate, su 600 complessivi. Nel 2011 la produzione è spostata nella sede di Pagazzano, in provincia di Bergamo: la sede storica chiude e i lavoratori caravatesi sono messi in cassa integrazione o trasferiti nelle altre filiali. È una ferita profonda per il paese. Ricordo il malcontento di tutti coloro che per anni, come fosse destinato a durare per sempre, avevano passato le proprie giornate lavorative immersi tra ottoni, pensili e specchi a pochi passi da casa. La notizia della chiusura dell’Inda, monolite integrante della vita del comune, arriva quasi all’improvviso. Bergamo è lontana, tanti decidono di non continuare a lavorare nell’azienda e si ritrovano alla ricerca di lavoro. I miei compagni di classe alle scuole medie parlano di padri stranamente a casa e madri contagiate da una smania di pulire case e stirare panni non loro.
La vera rivoluzione risale, però, al 1955. Felice Rusconi è un imprenditore edile, nonostante la sua quarta elementare. Per gli imprenditori con cui tratta all’inizio appare solo come un magutt, un manovale, ma presto si dimostra tanto competente da ottenere l’appalto per costruire il grattacielo di piazza Diaz a Milano. Da Lecco si trasferisce a Varese. In un tiepido giorno di quel 1955 Felice Rusconi è ospite del suo amico Alfredo Sonzoni e passeggiano per le vie di Caravate. Sono vicino al confine con Cittiglio, sulla montagnetta della Madunina dul Sass: lì vicino i Padri Passionisti pregano nel loro fresco convento. Rusconi calcia un sasso e lo vede sgretolarsi in un modo che lo sorprende. Ha un’intuizione, raccoglie una pietra simile e nei giorni seguenti la porta agli ingegneri del Politecnico di Milano. L’esito dell’analisi cambia il corso della sua vita. La pietra è calcare marnoso, “marna da cemento”. Rusconi ha trovato una miniera di cemento e, metaforicamente, d’oro. Subito compra i terreni della zona, detta Sasso Poiano, e già l’anno dopo è attivo il primo forno verticale che produce 1200 quintali di cemento al giorno. La domanda cresce sempre di più e con essa anche lo stabilimento: sorge una cattedrale nella roccia. Al confine tra Cittiglio e Caravate svettano torrette e forni rotanti, una cittadella in cui non si odono parole, ma solo esplosioni di mine e rombi di camion. La cementeria viene acquistata nel 1994 dalla società Colacem di Gubbio, parte del gruppo Financo. Altri altiforni popolano il paesaggio e scavano la montagna. Negli anni le nuove tecnologie come il nastro trasportatore e l’impianto di frantumazione riducono la polvere che si solleva e imbianca il vicinato. Diminuisce anche il rumore e le scosse delle cariche esplosive. Per la generazione prima della mia il cementificio era stato un piccolo trauma: aveva dato lavoro sì, ma anche fatto tremare le case e tolto terra e un colle. Mia madre lo chiamava “ecomostro”, ma per me era la normalità. Fatico a immaginare che un tempo non ci fosse. Le scosse sono diventate lievi, ma in ogni caso nessuno le registrava più. Anch’esse parte del quotidiano, me sono accorta quando qualche ospite se ne stupiva. Ad oggi, quasi non se ne sentono più: la montagna è ormai una cava, la manna e la marna sono esaurite.
Rusconi ha comunque dato lavoro a centinaia di operai e il suo cemento è nei muri della mia casa e di quella di migliaia di persone. Benefattore comunale e quindi intestatario anche lui di una scuola, la primaria.
Villa Letizia si trova in via Campari Migliavacca, che lungi dall’essere un insulto ad uno dei più noti apertivi italiani, è un omaggio a due abitanti della villa. A quanto dicono i documenti storici e la mia personalissima guida turistica, ovvero mia madre, nel 1800 la proprietà era del pittore Siro Penagini e all’epoca si chiamava Villa Maria. Gli studiosi del luogo (incredibile, ma esistono) riportano che attorno all’abitazione erano stati costruiti giardini, stalle, legnaie, una serra e persino una fontana. La proprietà viene acquistata da Gaspare Campari, proprio l’inventore del “Bitter all’uso d’Hollanda” meglio noto con il nome del suo creatore. Il signor Campari decide che la vita di fine Ottocento tra Novara e Milano è troppo frenetica e che alla famiglia serve una casa di villeggiatura. In un paesino di campagna, in una villa circondata dal verde, i Campari possono passare mesi di serenità. La villa è ribattezzata Letizia, il nome della nonna materna dell’imprenditore. La figlia di Gaspare Campari, Antonietta, vi si trasferisce in pianta stabile quando suo marito, Carlo Migliavacca, perde la vista. La coppia finisce la propria vita qui. Il figlio Antonio non sopporta più la vista di quel cortile e il suono delle campane del convento dei Padri Passionisti. Per lui sono solo ricordi della sofferenza di quel padre cieco che non poteva ammirare i fiori della sua serra. La villa viene venduta nel 1908 e Antonio parte per il Canada. Meno di 50 anni dopo, alla sua morte, la moglie Angiola Maria Barbizzoli viaggia fino a Caravate per riacquistare la villa. Per lei quello è un legame con il marito, che vi aveva passato l’infanzia e la ricordava come un luogo incantato, nonostante l’amarezza per il padre malato. La signora Barbizzoli la fa ristrutturare e ampliare. Viene annesso un padiglione adibito a casa di riposo e negli anni ’60 l’architetto di fama internazionale Luciano Baldessare progetta la chiesa di Santa Lucia. La signora, a capo della ditta Campari, contribuisce anche alla costruzione di un padiglione dell’ospedale di Sesto San Giovanni e di una scuola materna a Roma, oltre ad aver istituito la Fondazione Campari.
La cappella di Santa Lucia, dalla sua altura rocciosa, svetta candida ancora oggi. Ha una forma indescrivibile, tutta curve e pareti che paiono vele. Dentro ad ogni passo si scopre un anfratto, una scala a chiocciola. Ma il suo interno ormai non lo vede più nessuno. L’epoca d’oro di Villa Letizia è finita. La casa di riposo per non vedenti opera per tutta la fine del ‘900, sotto la gestione dell’Unione Italiana Ciechi. Verso la fine del secolo è affidata ad un commissario per ordine della regione, ma la proprietà resta dell’Unione. Questo è un periodo felice per gli ospiti. C’è sempre qualcuno nel parco tra volontari e visitatori. Una nostra amica di famiglia ci lavora per una stagione e poi viene assunta come ASA. I non vedenti non si sentono ospiti, ma caravatesi. Girano per la casa e il parco come vedessero angoli e porte: ormai nella loro mente c’è una mappa del luogo con la sua geometria tracciata dai corrimani sotto i loro polpastrelli. Non si annoiano mai, mi racconta l’ASA. I pomeriggi scorrono veloci tra lavori a maglia e creazioni in creta nella biblioteca della villa. E poi poesie, canti, balli guidati da maestri ed educatori. Ogni occasione è buona per festeggiare, e la pro loco sposta lì tanti eventi. A carnevale gli utenti si travestono, che ironia per loro. Tutti però aspettano Santa Lucia, la protettrice dei non vedenti. Nel freddo di dicembre si celebra una messa speciale nella sua chiesa e poi la festa continua tra musica e gente da tutto il paese. Due utenti si uniscono persino in matrimonio in quella chiesetta candida come i loro capelli. Gli ospiti diventano però sempre più anziani, nessun giovane arriva più, ormai in pochi sono autosufficienti. Nel 2000 la legge regionale trasferisce la gestione all’ASL di Varese. La villa non è più a norma secondo il nuovo ordinamento sulle case di riposo e andrebbe ristrutturata, con costi che l’ASL non può e non vuole sostenere. L’Unione la chiude, gli uomini e le donne che vi hanno vissuto per anni si devono trasferire. L’Istituto dei Ciechi di Milano decide però di affittare per 40 anni la proprietà e vi progetta un RSA, aprendo una trattativa con la Regione. Non se ne fa nulla, ma nel 2016 la proprietà è data in gestione brevemente alla cooperativa sociale Agrisol e diventa un CAS (Centro di Accoglienza Straordinaria).
La leggenda che vuole che il testamento Campari l’avesse vincolata ad ospitare non vedenti si rivela falsa. Migranti adulti dal Pakistan, dall’Afghanistan e dalla Nigeria vivono per qualche mese in un luogo incantato che per loro è un limbo. Sono uomini in attesa di sapere se le loro richieste di protezione internazionale saranno accolte. Nel frattempo, potano siepi, tagliano prati comunali e coltivano la terra del grande parco della villa. La domenica molti di loro vanno a messa, qualcuno gli si avvicina a parlare. Si comunica un po’ a gesti, l’italiano iniziano a capirlo dopo qualche mese, grazie alle lezioni quotidiane. Mentirei, però, dicendo che sono stati accolti bene nel comune. Li si vede poco, si incrociano qualche volta camminando. Ricordo che salutavano tutti con un sorriso. “Ciao signorina” mi dicono, e poi su le labbra a mostrare il candore dei denti. Non sono sorrisi falsi, come quelli che fanno quasi tutti salutando. Eppure, appunto, vengono contestati, prima ancora di arrivare. Alla notizia dell’apertura del CAS in quella villa bella e ormai inutile, in molti si riuniscono nel Comitato Civico Caravate Sicura. Il comune è prontamente tappezzato da volantini, senza la sorpresa di nessuno il logo riportato è quello di Forza Nuova. Caravate Sicura, perché di certo quindici migranti che sperano di essere riconosciuti come rifugiati saranno una minaccia all’ordine pubblico. È durata comunque poco. D’un tratto nessun “ciao signorina” e nessun sorriso sincero coi denti di porcellana. Niente più gilet arancioni e zappe in braccio. La villa è tornata vuota. Il custode se n’è andato. La targa dell’Agrisol resta. Sono andata, ho lasciato l’auto dove la madre della mia migliore amica d’infanzia metteva la sua Lancia elefantino blu. Sono passata davanti a casa sua. Dall’altro lato della strada vedo già le siepi cresciute oltre il muro. Dal cancello si vede solo un tratto del sentiero, poi scompare tra i rami. Al campanello non risponde nessuno, solo qualche uccellino.
Non risponde nessuno nemmeno al campanello di Villa Selvelli. In realtà suonare il campanello è superfluo. Il cancello è stato divelto e aggiustato più volte negli anni. Addentrarsi all’interno del parco della villa è arduo. È incolto e selvaggio da ormai 30 anni, con le immancabili palme a fianco di olmi e cedri del Libano che regalano pigne a rosellina a chi percorre la scalinata dalla piazza alla via da cui poi si arriva alla chiesa parrocchiale. Nell’Ottocento si chiama Villa Moizzi, ma l’erede la vende ad un aristocratico avvocato milanese. Guido Selvelli e la moglie Iole cercano, come tanti ad inizio Novecento, una casa di villeggiatura. Vi passano tutte le estati da giugno a settembre. Nel resto dell’anno il parco viene tenuto dal fiorista che abita due case più giù, proprio el mè Tunin, come si dice in dialetto. Il parco è enorme, si estende sui due lati della scalinata, nonostante la villa si trovi alla sua destra. Da bambina salivo la prima metà dei gradini e mi avvicinavo ad uno dei cancelli. Sbirciavo dentro e poi adempievo al mio dovere. «Porta alla villa le lumachine che trovi nel giardino» mi aveva detto mia madre. Dal mio secchiellino estraevo le chiocciole indesiderate e le facevo passare tra i pali del cancello domandandomi che avventure avrei potuto vivere in quella selva se fossi potuta scivolare come loro, al di là di quell’ingresso sbarrato. Ciò che era un parco è ormai da 30 anni una giungla incontrollata e caotica. L’avvocato, che non era poi così ricco e in paese chiamavano “avvocato delle cause perse”, con l’avanzare dell’età smette di frequentare la sua villa che ormai inizia, come lui, ad avere problemi dovuti all’anzianità. Il figlio da quando ha ricevuto quella scomoda eredità tenta inutilmente di venderla. Subissato da telefonate del comune sulla pericolosità degli alberi troppo alti e sui danni che infliggono ai cavi elettrici, ancora non ha abbassato i prezzi. Nessuna leggenda legata a questa casa, solo le mie fantasticherie da bambina su fantasmi e spie misteriose che avrebbero popolato la casa e usato quell’auto verde scuro parcheggiata davanti ad un cancello 10 anni prima e mai più ripresa.
Da quella scalinata circondata dai due parchi della Villa Selvelli si sale in direzione della Chiesa. Oppure si scende verso la piazza. Le stampe che la rappresentano a inizio Novecento sono dominate dall’ippocastano che si trovava arrivando dalla strada principale. “L’albero della libertà” era stato piantato per ordine di Napoleone vittorioso su Milano nel 1797. C’è ancora in una foto di metà secolo. Qui piazza Garibaldi è piena di persone e carretti di ambulanti. Centro paese brulicante di attività commerciali, chi con le insegne ai muri e chi ambulante su due ruote. Non direttamente in piazza ma sulla strada che la costeggiava c’è stata fino alla mia infanzia la polverosa e buia farmacia storica, che ora si è spostata dentro la piazza stessa ed è moderna, bianca e luminosa. Su quella stessa strada, fin da fine Ottocento sopravvive invece uno dei due negozi di generi alimentari del quartiere del secolo scorso. Ma chi viveva in questa zona stava bene, quindi la piazza era riempita anche da un bar, una merceria, un panificio e tanti ambulanti.
Oggi l’ippocastano non c’è più. Nel 1958 un fulmine lo colpisce e viene abbattuto. Non ci sono più mercerie o bar, anche se quand’ero bambina uno c’era. Nessun ambulante. Scomparso anche il panificio che tra alterne gestioni era arrivato fino ad una decina di anni fa, con il profumo di pane appena sfornato che mi accoglieva uscendo dal portone per andare a scuola e la commessa così dolce che per me e i miei fratelli era Balia Bea (la tata di principessa Odessa della Melevisione). Non è morto lo spirito imprenditoriale caravetese, però. Restano in fila come soldati un mobilificio, la farmacia, una parrucchiera e una cartoleria. Davanti a loro schierati i pochi parcheggi che ci si contende intorno al monumento dell’alpino ai caduti della Prima Guerra Mondiale. I nomi di 34 uomini che da qui sono andati a morire in trincea mi sovrastano mentre mi lamento perché anche oggi i posti sono tutti occupati e devo camminare qualche metro in più. Ognuno ha la sua piccola, grande morte a Caravate.