Bollate è un luogo, che in passato era chiamato paese e oggi è chiamato città. Non gode di notorietà storica da raccontare nei libri di scuola. Si trova nel cosiddetto hinterland milanese e ha attraversato i secoli nell’ordinaria laboriosità: prima paese rurale, fatto di campi e cortili, poi pre e post-industriale, dove sono arrivate le fabbriche e i palazzi. Ha vissuto i cambiamenti storici, culturali e sociali propri della terra di Lombardia, preordinando intraprendenza ed accoglienza ad uno sviluppo ordinato ed elegante. Qui, la connotazione identitaria ha lasciato spazio alle trasformazioni impresse dai flussi migratori del boom economico degli anni Sessanta, e successivamente della forte immigrazione straniera, adattandosi ad assecondare i bisogni, più che ad affermare lo status quo. È una terra di contraddizioni: città ma periferia, abitata ma poco vissuta, accessibile ma poco ambita. Nondimeno, Bollate è il luogo della mia origine: è il luogo dei miei genitori, è il luogo dei miei nonni. In un qualche modo, riguarda anche me.
Bollate conta poco meno di quarantamila abitanti e in sé è tante cose: è comunità, è cultura, è innovazione e promozione. È musica, senso d’appartenenza e politica. Ma tra tutte si è fatta conoscere a livello internazionale per uno sport particolare: il baseball. Importato in Italia dalle truppe americane con lo sbarco di Anzio, si è diffuso nel nostro Paese attraverso le basi Nato. Nel 1957 a Bollate nasce la Tigrotti Baseball Club, da un’idea di Gilberto Gessaghi e Vincenzo Ciccolella, che, forse affascinati dal sogno americano degli Yankee e dal suono del Rock and Roll che arrivava in Italia, seduti ai tavolini del bar Vittorio in via Roma hanno deciso di radunare un gruppo di amici per fondare la prima squadra di baseball della provincia milanese. “Ad alimentare questo mito ha contribuito la visione del film Il prigioniero della paura, dove Antony Perkins interpreta un campione di baseball” racconta uno degli storici fondatori Franco Dotti. Nel 1959 rinominarono la squadra BBC – Bollate Baseball Club, denominazione che nel 1970 ottenne la promozione in Serie A.
Quella disciplina, nuova e dapprima vista con sospetto dagli occhi dei bollatesi, venne eletto sport cittadino. Coinvolse l’intero paese tanto che il centro sportivo registrava sistematicamente il tutto esaurito durante le partite. Bollate viveva e respirava la passione per il batti e corri nostrano, generando un entusiasmo popolare che raggiunse la capitale, dove qualcuno del CONI, Bruno Beneck, incuriosito dall’alto livello di partecipazione che suscitava quella squadra, suggerì alla Norditalia Assicurazioni di sponsorizzarla. Grazie al supporto della società, la BBC ottenne un posto stabile in Serie A, dove ebbe un ingresso in grande stile con un 5 a 0 contro la Montenegro Bologna – ai tempi campioni d’Italia.
Nel paese iniziò a circolare una vera e propria febbre del baseball: si discuteva dei protagonisti, del gioco, degli errori nei bar e nei luoghi d’incontro. Tutti i ragazzi avevano un guantone e una pallina – compreso mio padre, Mario, che ricorda le partite in cortile con gli amici del palazzo. All’oratorio estivo il tradizionale torneo di calcio fu sostituito dal torneo di baseball. Nacquero diverse squadre satellite e quello sport divenne insieme identitario e comunitario.
Arrivarono anche i giocatori statunitensi: Roy Coston, Dave Phares, Dave Pillow, Rick Spica, Lou Cassinelli. Arrivarono a Bollate, accolti dall’entusiasmo e dal calore dei cittadini. I più coinvolti raccontano che gli americani tornarono a casa custodendo qualche parola di dialetto bollatese.
Nel corso degli anni l’attenzione verso questo sport non è diminuita, ma si è trasferita nel tifo femminile. La squadra di softball, la Bollate Softball 69, vanta un albo d’oro composto da 13 scudetti, 4 Coppe Italia, una Coppa dei campioni, una Coppa delle coppe, che hanno reso la società la compagine più titolata d’Italia. Inoltre, nel corso degli anni ha fornito alla nazionale italiana decine di atlete, che hanno contribuito a vittorie europee e mondiali. Addirittura, può annoverare quattro ragazze che hanno disputato le Olimpiadi di Tokyo 2022, diventate orgoglio cittadino.
Ed è proprio attraverso la traiettoria della pallina da baseball che scelgo di raccontare il paese – città delle mie origini, spostandomi sulla linea del tempo tra il passato, il presente e il futuro.
Foul ball: il battitore e i corridori devono tornare alle proprie basi – Il passato.
Il pallone di San Sebastiano
“San Sebastian un frecc de can”
“San Sebastian un’ora in man”
Bollate in origine era un paese rurale. La campagna faceva da sfondo alla vita quotidiana e l’attività agricola scandiva i ritmi e il sostentamento per la maggior parte delle famiglie. I cambiamenti metereologici – una grandinata improvvisa, un calo di temperatura o un’abbondante pioggia – generavano preoccupazione. Potevano compromettere il raccolto e, di conseguenza, il fatturato domestico. Così, per scongiurare questo tipo di imprevisti, i contadini si affidavano alla provvidenza celeste attraverso riti propiziatori. In inverno i più conosciuti erano il falò di Sant’Antonio e il pallone di San Sebastiano, celebrati il 17 e il 20 gennaio. La credenza popolare sostiene che, se il rogo e il pallone bruciano senza intoppi, è segno di una buona annata.
Paolo Vegetti, uno dei pochi agricoltori rimasti, racconta: “Questi sono gli ultimi due riti superstiti della Bollate agricola, sempre più residuale. Noi siamo i testimoni finali di questa ritualità e ci teniamo a ricordare chi siamo e da dove veniamo. Sperando che qualcuno delle giovani generazioni ne raccolga l’eredità”. Così, nel 1980 la tradizione del pallone di San Sebastiano viene ripresa e si trasforma nella “festa di ringraziamento” degli agricoltori per la buona annata, celebrazione che dura tutt’ora. Sandra Pasqualini, figlia dello storico presidente della Coldiretti, aggiunge: “Naturalmente il momento più atteso è proprio quello dell’accensione del pallone perché dall’andamento delle fiamme si capisce l’evolversi dell’annata agricola. Presagio che dopo essere stato esorcizzato tra il fuoco del pallone e l’acqua santa della benedizione dei mezzi viene propiziato con abbondanti brindisi augurali”. Ma come funziona? Ce lo racconta Claudio “baragia” Doniselli, ultimo titolare di una fattoria con circa duecento mucche: “Durante la celebrazione della messa, dopo l’offerta sull’altare dei prodotti della terra come segno di gratitudine del raccolto, il pallone fatto da cotone idrofilo e carta, che campeggia sull’altare, viene incendiato e si guarda l’andamento delle fiamme”. Sul piazzale della chiesa, poi, avviene la benedizione dei mezzi agricoli schierati. Il tutto, poi, finisce poi con la sfilata dei trattori lungo il percorso che porta al ristorante e “si va a mettere le gambe sotto al tavolo. E per quel giorno, non ci sono impedimenti di campagna o di stalla che tengano”.
Cascina del sole
Cascina del sole è una delle cinque frazioni di Bollate, che oltre il capoluogo comprende Ospiate, Cassina Nuova, Castellazzo e fino ai primi anni 2000 Baranzate.
È il classico esempio di società agricola del passato, come spiega lo storico locale Eugenio Ghioni, detto Gegè: “Nei primi del Novecento il paese era formato da due vie: il cardo, Cassina Nuova – Novate – Bovisa, ed il decumano Bollate – Cormano. A queste si aggiungeva la streciuora (strettoia), incuneata tra due murate di corti. Erano sì e no quattrocento/cinquecento persone, quasi tutti contadini affittuari di importanti enti ospedalieri, che si conoscevano e spesso si imparentavano tra loro. Ancora nel 1967 un censimento delle attività agricole ne contava una ventina”. Dentro questo piccolo contesto, si svolgeva la vita contadina scandita dai suoi riti: la festa, la vendemmia, la semina, la mietitura, in un affresco esistenziale simile a quello raccontato da Ermanno Olmi nel film L’albero degli zoccoli.
La Cascina del Sole era soprattutto famosa per la coltivazione degli asparagi, per cui a maggio compagnie di persone arrivavano a frotte da Milano e da altri paesi limitrofi e “si tuffavano nei piattoni fumanti di asparagi annegati nel burro fuso, sepolti sotto uova e parmigiano – come ricorda Guerino Sorte, titolare di una trattoria – a sbrodolarsi d’unto camicie e giacchette, tant’è che avevamo sempre pronto il barattolo del borotalco assorbente per metterlo a disposizione dei clienti bordegoni (sbrodoloni)”.
Per le donne, era molto sviluppato il lavoro delle sarte. “Non c’erano atelier, ma si lavorava in casa. Bastava uno specchio e una macchina per cucire. Ed era soprattutto luogo d’incontro per fare quattro chiacchiere”, intese come pettegolezzi, rammenta Maria Porro, una delle habitué del tinello della Gina. A rifornirle di stoffe era il “Nucent”, che le prendeva da un mercante milanese. “Ai tempi, quello del sarto era un mestiere rispettabile e nel suo piccolo anche redditizio, sempre meglio che spezzarsi la schiena con la vanga”.
Poi, negli anni Settanta il progresso ha chiesto spazio ed è iniziata la fine di Cascina del Sole. Sono cambiate le generalità in tutti i sensi. Disperse le numerose famiglie che vi erano nate e vissute, deserte le stalle e i campi, in rovina prima e poi abbattute le vecchie corti per far posto agli avveniristici insediamenti urbani, abitati da nuove famiglie di provenienze ed etnie diverse. “E chi si ricordava più di quel che era stato? Ciao Cassina del Su” conclude con una punta di nostalgia Eugenio Ghioni.
Le corti e i cortili
La mia finestra sul cortile si affaccia su quella che era la Curt di Ubold dove adesso c’è il condominio nel quale ho visto la luce. Il cortile era un piccolo mondo antico dove fiorivano svaghi, amicizie, confidenze, sogni, solidarietà reciproche, disaccordi e pettegolezzi. Si metteva in scena una sorta di commedia umana, dove insieme ad un forte spirito di appartenenza e di identità si cresceva la vita. “All’interno del cortile vivevano circa una decina di famiglie tutte contadine. Ad ognuno di queste era assegnato un appartamento. L’appartamento era composto da tre stanze – spiega Giancarlo Annoni, uno degli storici residenti – senza riscaldamento e senza acqua potabile che veniva prelevata da una pompa chiamata la tromba posizionata al centro del cortile e che fungeva anche da lavatoio. Anche i servizi igienici erano esterni. A ciascuna famiglia erano attribuite anche una stalla con sopra il fienile, un pollaio per allevare galline o altro ed un pezzo di terreno appena fuori dal cortile da destinare ad orto”.
L’aia era il parco giochi dei bambini, vista la vastità dello spazio a disposizione. Si praticavano i classici giochi della rella o lippa (antesignana del baseball), il salto con la corda, le partite di pallone e con le bambine la brisiga e le biglie. Nei mesi estivi l’avvenimento clou era il raccolto del furmentun (granoturco). Arrivava la grande macchina agricola, che serviva all’operazione di trebbiatura, accompagnata dall’assordante rumore del motore che faceva da colonna sonora all’operazione. “Era una festa collettiva – ci spiega Sergio Strada, figlio del parrucchiere – i bambini erano chiamati a collaborare nell’attività de sloassà, ossia separare le foglie dalle pannocchie. Una volta sgranati, i chicchi venivano disposti sull’aia ad essiccare per la nostra felicità, perché potevamo ingegnarci a realizzare delle pistole spara grano per lanciarci in appassionate sparatorie con i coetanei delle corti vicine. Attrezzi che realizzavamo con pezzi di legno debitamente sagomati e avvolti da elastici che tenevano salde le mollette da bucato, che servivano da caricatore”. In quel periodo, Bollate prendeva le sembianze di un’unica grande aia, “zone come la piazza del mercato o quella della chiesa erano letteralmente invase dal grano che veniva messo ad asciugare, tanto da rendere difficoltosa la circolazione di biciclette e automobili”, ricorda Roberto Schieppati, che ha vissuto la gioventù in quell’epoca. Bollate era conosciuta anche come la piccola Venezia. Era attraversata, infatti, da ben ventidue fontanili e quando c’erano piogge abbondanti “i torrenti principali, la Garbogera e Pudiga, esondavano e allagavano le zone circostanti, e davvero – aggiunge Schieppati – Bollate prendeva le sembianze di Venezia!”.
L’evento clou della stagione fredda era, invece, il rito dell’uccisione del maiale. Una vera e propria festa non solo per seguire le varie fasi della macellazione, ma perché era usanza distribuire a tutti i residenti della corte parti degli insaccati prodotti.
“E poi c’era la Stella – si sofferma ancora Giancarlo Annoni – un’attrazione a sé, il nostro oggetto del desiderio. A noi ragazzini l’accesso al circolo ricreativo era vietato. Il locale aveva però una porta e un paio di finestre con affaccio sul cortile, che ci consentivano di poter sbirciare nelle serate particolari, soprattutto quelle di momenti danzanti, che si svolgevano nel finesettimana con la musica eseguita da un’orchestrina. In queste circostanze, la nostra curiosità veniva pienamente appagata, ancora oggi è rimasto indelebile il ricordo del fascino che esercitava su di me un’avvenente giovane ragazza che si chiamava Teresina Rubagotti: era il centro dell’attenzione dei clienti per le sue riconosciute qualità di ballerina e non solo. L’euforia generale raggiungeva il suo culmine quando sulle note di uno sfrenato foxtrot saliva sui tavoli per eseguire al meglio il suo agitato numero. A questo punto, noi ragazzini in piedi sullo sgabello portato da casa, e aggrappati alle griglie esterne delle finestre per vedere il meglio possibile lo spettacolo, invidiavamo i fortunati presenti nel locale e cominciavamo a fantasticare”.
Le case erano riscaldate da stufe a legna e carbone, utilizzati sempre con parsimonia. Succedeva, quindi, che alla sera dopo cena le famiglie si trasferissero in stalla per sfruttare il caldo umido generato da mucche e cavalli. “Era l’occasione per ascoltare storie e aneddoti, i pensanich, spesso romanzati, raccontati dagli adulti prima di andare a coricarsi tra le fredde lenzuola del letto”, spiega Sergio Strada.
Bunt: tecnica di attacco, effettuata dal giocatore in battuta che colpisce intenzionalmente la palla con poca forza, in modo da tenerla vicina alla casa base – Il presente.
Cantun Sciatin: luogo di comunità
Il Cantun Sciatin, letteralmente “angolo del piccolo rospo”, rappresenta il passaggio tra l’antico e il moderno. Una leggenda narra che luogo ha ospitato il Barbarossa durante l’invasione di Milano. Allora cortile centrale del paese, oggi piazza dove sorge il nuovo centro civico e comunale. La sua rigenerazione è l’emblema delle sempre annose discussioni tra nostalgia e modernità.
“È la storia di un recupero contrastato – ha detto Antonio Pastore, all’epoca Assessore all’Urbanistica che ha avviato l’operazione -. Dovetti compiere una lunga trattativa con la proprietà del caseggiato in carico al conte Radice Fossati, uno dei più noti proprietari terrieri del paese. E quando finalmente le ruspe entrarono in azione per avviare i lavori, cominciò il classico dibattito tra innovazione e conservazione”. L’operazione, accompagnata da centinaia di riunioni pubbliche, finalmente decollò. Dismessi i vecchi cortili, “abbiamo riportato nella disponibilità dei cittadini un’area centrale abbandonata, composta da due grandi piazze, la biblioteca all’interno di un palazzo del Seicento restaurato, una sede comunale dignitosa, un centro commerciale naturale – composto dai negozi sotto i portici – e una parte di abitazioni. Di fronte è stata costruita una piazza triangolare, una sorta di estensione della biblioteca, da attrezzarsi per mostre, concerti, incontri per favorire l’effetto comunità”.
A suffragare la tesi di Antonio Pastore, arriva la conferma di Giovanni Nizzola, sindaco in quel periodo: “A conti fatti fu un’intuizione illuminata, di cui la città ne gode a distanza di anni. Una moderna agorà, che oggi rappresenta il vero baricentro cittadino, dove la socialità trova accogliente teatro d’incontro: transizione tra il come eravamo e il come siamo”.
Il ruolo delle cooperative
In questo mutamento sociale e strutturale un ruolo importante lo hanno giocato le cooperative edificatrici, che per far fronte all’enorme richiesta di abitazioni, che arrivavano con la tumultuosa ondata migratoria, misero a disposizione degli appartamenti a prezzo calmierato. Tra queste, una delle più storiche, è la cooperativa edificatrice di estrazione cattolica San Martino, fondata nel 1950.
“Ho avuto il privilegio, sin da adolescente, di essere immerso in realtà sociali che hanno condizionato il mio futuro: l’oratorio, l’attività politica e l’impegno nella cooperazione come amministratore prima, e poi presidente della San Martino” racconta Emanuele Castelnovo. “Giova ricordare che uno dei soci fondatori fu Don Carlo Elli, parroco di allora, e il primo presidente fu Vittorio Nizzola, non ancora trent’enne. Da allora la cooperativa ha costruito un migliaio di appartamenti, un terzo dei quali costituiscono ancora l’attuale patrimonio gestito sempre con l’intenzione di offrire una soluzione abitativa a prezzi calmierati”. Oggi la San Martino conta circa mille soci, due terzi dei quali investono nell’attività anche i loro risparmi attraverso il deposito sociale che la cooperativa amministra. “È dunque facile capire che la San Martino non è semplicemente una agenzia per la casa ma vuole offrire ai suoi soci anche la possibilità di contribuire al bene di tutta la comunità. È, infatti, parte del tessuto sociale bollatese e collabora con le istituzioni cittadine per dare un senso compiuto al principio di sussidiarietà. Collabora, inoltre, con numerose associazioni di volontariato e culturali cercando, per quanto possibile, di aiutarle a realizzare i loro progetti. Affianca, infine, con le istituzioni religiose con le quali ha sempre desiderato, pur nella distinzione dei ruoli, rendere vivo quel legame all’origine della nascita della San Martino nel 1950” puntualizza il vicepresidente Mario Pagani. Funzione, dunque, fondamentale e significativa del mondo della cooperazione per lo sviluppo di Bollate, perché tende a favorire non solo la domanda di abitazioni, ma anche delle buone pratiche per far crescere il territorio, come ci tiene a sottolineare ancora il presidente Castelnovo “La mia esperienza di cooperatore a Bollate, mi ha insegnato molte cose. Innanzitutto, comprendere come ciascuno di noi può fare qualcosa per la propria città. Poi ho capito che esperienze come queste ti restituiscono spesso più di quanto hai saputo dare. Da ultimo, gli incontri con persone che segnano la tua vita e che ti migliorano. Ho potuto fare tutto questo nella mia Bollate, con i miei amici, gli stessi, da oltre 50 anni. Davvero avrei potuto chiedere di più alla mia città?”.
La cultura che integra
“Mi sono sempre immaginato il paradiso come una specie di biblioteca”
La citazione di Jorge Luis Borges ben si sintonizza con l’attività della biblioteca civica locale, sorta nel febbraio del 1957, che con la sua attività – intitolata qualche anno dopo alla poetessa Ada Negri che visse a Bollate da sfollata durante la Seconda guerra mondiale tra il 1943 e 1944 – ha contribuito a promuovere l’integrazione tra vecchi e nuovi cittadini e a sviluppare il senso di appartenenza ad una comunità e la crescita culturale della città. Infatti, insieme all’attività libraria ha editato il periodico L’informatore bollatese, nato nel 1958, con l’obiettivo non solo di stimolare la lettura, ma di favorire “lo sviluppo della cultura locale e del civismo come unione dei bollatesi nel nome della loro città”, come scrisse nell’editoriale di presentazione il direttore Carlo Croce.
Oltre all’attività libraria, la biblioteca promosse anche diverse iniziative di animazione e socializzazione, partecipando in forma attiva al primo carnevale bollatese negli anni Sessanta, manifestazione che si svolgeva in grande stile richiamando in paese centinaia di persone, addirittura con treni speciali organizzati dalle Ferrovie Nord. I carri allegorici allestiti dai vari rioni, dopo le sfilate cittadine, partecipavano al carnevale ambrosiano del sabato grasso, non prima di essere ricevuti in Arcivescovado dall’arcivescovo di Milano – all’epoca cardinal Giovan Battista Montini, futuro Papa Paolo VI – e a Palazzo Marino per ricevere dal sindaco l’Ambrogino d’oro. Questa manifestazione rilanciata nel 1978 ha tenuto banco fino al 1985.
La biblioteca, inoltre, ha istituito il Premio Pittura Bollate, che per un decennio, dal 1957 al 1967, ha visto la partecipazione di artisti di fama nazionale, come Baratella, Motti, Reggiani, insieme alla valorizzazione di artisti locali. Si fece anche parte attiva, mettendo a disposizione i traduttori, nello svolgimento della Cento Chilometri di Marcia, competizione internazionale disputatasi il 1° novembre 1960, poche settimane dopo la conclusione dei giochi olimpici di Roma. La gara fu vinta dalla stessa medaglia d’oro: l’inglese Don Thompson, battezzato familiarmente dai bollatesi Mister Cicinin per la sua sagoma minuta e sottile.
Con il trascorrere degli anni i gusti culturali si sono adattati ai nuovi tempi e alle nuove richieste, così negli anni Settanta Bollate ha ospitato in anteprima mondiale la presentazione dell’Opera di Luigi Nono, Al Gran sole carico d’amore, con presente, insieme al compositore, il celebre pianista Maurizio Pollini. Inoltre, diede vita ad uno dei primi esperimenti di decentramento teatrale, mettendo in scena con la compagnia Teatro Nord il fantastico Cavaliere Don Chisciotte de la Mancia, rappresentazione che vedeva tra gli interpreti una giovanissima Miriam Bartolini, che diventerà più nota con il nome di Veronica Lario. Si trattava di uno spettacolo itinerante costruito in mezzo alla gente, che veniva allestito in diversi comuni del milanese.
In ambito fotografico, la biblioteca con la mostra Cento anni di immagini, retrospettiva sulla memoria da tramandare, ha favorito la nascita del Centro fotografico Lo Scatto. Attraverso l’esposizione Immagini del Jazz di Calo Verri, allestita nel 1980, ha invece preso le mosse l’Associazione Bollate Jazz Meeting, che dal 1998 promuove la rassegna Conoscere il Jazz. In ventisei edizioni ha richiamato in città i più grandi nomi del jazz nazionale ed internazionale, “tanto che – sottolinea il presidente
Paolo Nizzola – la nostra rassegna ha fatto inserire Bollate tra le capitali del Jazz italiano. Con una punta d’orgoglio possiamo dire che dalla nostra rassegna sono stati realizzati anche due cd: Live in Bollate, del pianista del Queen’s George Cables, diventato grande amico della nostra città, e Induo, eseguito in doppio pianoforte da Enrico Intra ed Enrico Pieranunzi”.
Questa iniziativa musicale fa il paio con il rinomato Festival di Villa Arconati di Castellazzo, giunto alla 35° edizione. Oltre alla musica, usufruisce del bellissimo palcoscenico naturale rappresentato dal parco della seicentesca villa conosciuta come “la piccola Versailles”, attualmente di proprietà della Fondazione Rancilio. Una passerella che ha visto passare negli anni danzatori come Rudol’f Nureev e Luciana Savignano, rock star come Patty Smith, Joan Baez, Pat Metheny, il jazzista Dizzy Gillespie e cantanti italiani come Paolo Conte, Invano Fossati, Fiorella Mannoia, Pino Daniele e altri. Proprio per lo sviluppo della cultura, soprattutto per le iniziative musicali, è stato assegnato dall’amministrazione comunale l’attestato del Martino d’oro – massimo riconoscimento cittadino – in epoche diverse ai fondatori di Bollate Jazz Meeting, Paolo Nizzola e Giordano Minora.
In sintonia con il segno dei tempi, la biblioteca da qualche anno promuove nella piazza del centro civico la “Cena di tutti i colori”, momento di convivialità comune all’insegna dell’integrazione e dell’accoglienza tra le varie etnie presenti sul territorio. In fatto di immigrazione, è da rilevare, che Via Gorizia a Baranzate è una delle strade più multietniche d’Italia. Solo lì ne sono presenti più di 50. Tra l’altro, Baranzate, con gli oltre suoi 10.000 abitanti, nel 2002 con un referendum ha scelto di staccarsi da Bollate e di diventare un comune autonomo.
Valida: il battitore dopo aver colpito la pallina in avanti raggiunge la prima o una delle tre basi – Il futuro.
Il carcere
Proprio in questa costruzione sta il paradosso del distacco tra Bollate e Baranzate. Il carcere da sempre conosciuto come “quello di Bollate”, è ubicato in realtà nel territorio di Baranzate. La casa circondariale, a discapito di nome e funzione, è rinomato come una delle eccellenze del territorio. È stato aperto nel dicembre del 200° e in più di vent’anni ha fatto cambiare idea ai tanti preoccupati detrattori di questo scomodo vicino di casa, grazie alle buone pratiche messe in atto, a cominciare dalla sua organizzazione. È definito “casa di reclusione a custodia attenuata”: i detenuti (in media 1200) scontano la pena definitiva a porte aperte, le celle si chiudono solo la sera.
Fin da subito si è caratterizzato come modello di istituto penitenziario, che favorisce l’inclusione sociale. Non per niente al suo interno sono nate molteplici iniziative di volontariato, di solidarietà ed economiche. La più rinomata è il celebratissimo ristorante In Galera, citato come esempio attivo niente meno che dal New York Times.
Bollate post-industriale e verso il futuro
Lo sviluppo urbano, naturalmente, è andato di pari passo con lo sviluppo economico – industriale. Affianco alle storiche Borroni e Ceramica, sono arrivate nuove fabbriche come la Ceruti e la Boston che “erano molto attive e davano lavoro a tanti bollatesi”, afferma Roberto Schieppati, testimone del passaggio della città da agricola a industriale. Lungo la fascia della Varesina, che va da Baranzate all’Alfa Romeo (nella vicina arese), che assorbiva gran parte della manodopera bollatese, si è assistito alla nascita di una grande concentrazione di fabbriche di merceologie diverse, che andavano dal meccanico al chimico, dall’aeronautica alla stampa, dalla vetreria all’elettronica e dai motori alle motociclette (il celeberrimo Motom). “Nomi anche prestigiosi che hanno fatto parte della storia socioeconomica locale, hanno garantito occupazione e reddito, peccato che buona parte di essi sia rimasto un nostalgico ricordo di archeologia e statistica industriale”, dice l’imprenditore Livio Bassan. Infatti, nella fase post-industriale la fabbrica in quanto tale ha lasciato spazio ad iniziative innovative, nel campo della ricerca e della tecnologia “è il caso del centro CSI di Traversagna, che si occupa di sviluppare nuove tecniche in fatto di tecnologia dei materiali o dell’Eurotranciature, azienda leader europea nella fornitura di componenti per la transizione ecologica”. Come emblema di questo mutamento c’è l’avveniristico investimento nel capitale umano: sulle ceneri della fabbrica meccanica Carboloy da qualche anno è sorta l’International School of Milan, che occupa più di 1500 allievi provenienti dall’intera area metropolitana, con lo scopo di preparare e di mettere sul mercato futuri nuovi manager e imprenditori. Questo investimento sul capitale umano si affianca alla futura costruzione del Data Management, che sorgerà nei pressi della frazione bollatese di Cassina Nuova. Nella limitrofa Area Mind, invece, che ha ospitato i padiglioni di Expo 2015, stanno sorgendo a fianco di facoltà universitarie nuove factory di fast lab, autentici laboratori di idee per promuovere occasioni di dialogo tra progettisti e incontri formativi.
A far da cornice a tutte queste novità in ambito economico stanno sorgendo, tra vecchie aree dismesse e gli ultimi terreni agricoli, nuove aree residenziali che declinano insieme alle moderne abitazioni iniziative commerciali e di terziario. È il caso del nuovo insediamento che sorgerà nella ex area Ceruti, dei condomini edificati lungo i campi di Madonna in Campagna e dei domotici appartamenti nati sulle ceneri della vecchia Timavo – fabbrica di tintoria.
Tutte le foto della gallery sono di Giordano Minora (per gentile concessione dell’autore)