Alessio Romenzi, classe 1974, è un fotografo freelance dal 2009. Dopo il master in Fotogiornalismo all’Istituto Superiore di Fotografia e Comunicazione Integrata a Roma, si trasferisce a Gerusalemme. Negli anni successivi seguirà sul campo le rivoluzioni della Primavera Araba, con un focus speciale su Libia ed Egitto.
Più tardi, nel 2012, sarà uno dei primi fotoreporter a scattare da clandestino in Siria. Le sue fotografie sono apparse in pubblicazioni tra cui il New York Times, il Washington Post, Time magazine, Le Monde, Le Figaro, El Mundo, El Pais, La Repubblica, Corriere della Sera, Der Spiegel, The Guardian e The Telegraph.
Collabora, inoltre, regolarmente con organizzazioni internazionali, tra cui Amnesty International, Fao, Unicef, Unesco, Comitato Internazionale della Croce Rossa, Save the Children e War Child International.
Di cosa si sta occupando in questo momento?
Sto curando un reportage sulla crisi dei migranti siriani, in fuga verso l’Europa.
Tra agosto e settembre sono stato su due imbarcazioni che si occupano del soccorso e recupero in mare dei migranti: la Dignity I, gestita da Medici Senza Frontiere e la Virginio Fasan della Marina Militare Italiana. Questo è l’ultimo capitolo di un mio progetto di lungo termine su questa tematica.
Molti dei suoi reportage, anche recenti, si sono svolti in Libia, la cui situazione politica è all’ordine del giorno nell’agenda di Obama e di molti governi europei.
Sono stato in Libia durante la rivoluzione diverse volte e adesso la rifrequento da un anno. La situazione nel corso degli anni non è cambiata. Si tratta di un Paese molto frammentato, basato su sistemi tribali. Un personaggio forte come Gheddafi è riuscito ad unificare con la forza il territorio, ma adesso ognuno fa partito a sé.
La stessa divisione generica tra Est e Ovest, con la coesistenza del governo di Tripoli e quello di Tobruk, non riflette quella che è la realtà: all’interno di ogni governo si trovano decine e decine di fazioni. Il mio parere super partes è che sia un Paese con un disperato bisogno di equilibrio.

Alessio Romenzi
Per progetti complicati come quelli in Siria o in Libia, come si organizza prima della partenza?
L’essenziale prima di partire per un reportage è poter contare su dei buoni fixer, cioè civili locali, più o meno inseriti nei meccanismi del contesto cui appartengono. Saranno d’aiuto sul campo per quanto riguarda logistica, contatti e interpretariato. Nella mia carriera non mi sono mai appoggiato a istituzioni politiche o a esercito, mi sentirei in qualche maniera limitato.
Poi cerco di organizzare tra i miei appunti una sorta di scheletro del reportage in base alle tematiche da affrontare e alle distanze da percorrere. Normalmente questo è soltanto una base da cui prendere spunto, perché poi modifiche sul campo se ne fanno e vanno fatte.
Come incide la paura in questi contesti?
Molto. Questo può avere effetti benefici ai fini del mio lavoro, nel senso che sono ipersensibile a qualsiasi input che arriva dal contesto che mi circonda, come normalmente non lo sono. Ma ha anche effetti limitanti perché ovviamente in una zona di conflitto non si può fare tutto quello che passa per la testa.
Come cambia muoversi da fotografo freelance o in “assignment”?
Dipende dalla situazione e dalla testata. Con Time magazine, per fare un esempio, ho lavorato in più occasioni e per brevi periodi. L’ultima volta a Gaza nel 2014. Nei contesti di guerra la loro direttiva è riassunta in: – Tu sei lì, stai già rischiando abbastanza, ci fidiamo di te, facci vedere cosa succede -. Insomma, carta bianca.
Poi ci sono stati progetti, per lo più ritratti, realizzati in situazioni un po’ più tranquille. In quelle occasioni avevo vincoli di natura stilistica da rispettare.
C’è un luogo tra quelli in cui ha lavorato che si porta dentro in modo particolare?
Sicuramente la Siria. Ho avuto la fortuna di essere tra i primi a poterla seguire. Premesso il fatto che ho sempre visto il conflitto siriano dalla parte dei ribelli, da clandestino. Ci sono stato una decina di volte e l’ho vista da diverse angolature. Entrando dal Libano e quindi avendo come base Homs, che all’inizio era un po’ l’epicentro della rivoluzione. In seguito sono stato nella zona intorno a Damasco, poi Aleppo, infine Idlib. Ho un quadro abbastanza completo di quelle che sono le dinamiche interne.
Se dovesse scegliere, a quale delle Sue immagini è più legato?
Una bambina che piange sul corpo del padre ucciso, durante il funerale. Scattata ad Al-Qusayr, in Siria, nel febbraio 2012.
È stata una copertina di Time Magazine.