Aspettando Godot, la famosa opera teatrale di Samuel Beckett, è stata in scena al Piccolo Teatro Grassi di Milano nella versione di Theodoros Terzoloulos dal 5 al 10 marzo. Il regista greco, tra i più grandi maestri della scena novecentesca, ha rappresentato l’assurdo in chiave tragica. Il successo era previsto ancora prima dell’inizio: tutte le date sono state sold out. La capacità del regista, che gli ha garantito gli applausi, è stata quella di ironizzare con leggerezza su tematiche universali.

SIPARIO. Una grande scatola nera al centro del palco. Si apre e, come da un guscio, appaiono due figure: sono Vladimiro (Didì) ed Estragone (Gogò), due buffi personaggi che conversano tra di loro. La scenografia è minimalista, è tutta qui. Non ci sono interruzioni, sono novanta minuti di spettacolo. Tutta l’opera teatrale si svolge sopra a questa scatola, che si scompone in quattro quadrati lasciando al centro lo spazio di una croce.

LA VITA. Gogò e Didì discutono ubriachi ai piedi di un salice piangente, invisibile agli occhi dello spettatore, ma che il regista lascia immaginare. Durante tutto il dialogo lo stato d’animo dei due protagonisti oscilla tra la gioia e la disillusione. Le risate si alternano al pianto, le prese in giro bonarie agli insulti, il bisogno di stare insieme all’ipotesi di separarsi. Sin dalle prime parole emerge il centro dell’opera: la vita e la morte per chi è sul palcoscenico sembra non abbiano peso, tanto che, nel gioco, Didì e Gogo annoiati ipotizzano di impiccarsi all’albero quella notte. Non agiscono perché aspettano: aspettano Godot. 

Se la vita non ha valore, tutti i sensi del pubblico vengono pervasi da un’idea di morte. Il suono in sala è quello delle mitragliatrici, degli spari, dei rantoli e del battito cardiaco. Gli occhi osservano immagini e raffigurazioni del dolore in varie forme: la morte appare squarciando la tela della scenografia con un coltello. Esce Pozzo, il proprietario della terra sulla quale stanno dormendo Didì e Gogò, con due lame in mano, gridando un monologo carico di violenza. Con lui c’è Lucky, il suo servo, che viene trattato come una bestia: è cosparso di sangue, ha una corda al collo (come fosse un guinzaglio), si contorce in modo convulso, sputa e balbetta in preda all’agonia. Pozzo vuole liberarsi di lui e si chiede se abbia più senso venderlo o ucciderlo. “Non avevo idea di cosa fosse la bellezza, non ne posso più di quello che mi fa, è insopportabile”, spiega Pozzo. La visione di Lucky per quell’uomo è insopportabile. Se da una parte Pozzo è padrone e crudele, dall’altra è vittima della purezza del servo. 

LA CROCE. In scena Didì e Gogò discutono sulla condizione in cui versa il servo. “E’ inaccettabile: è un uomo!” grida Gogò. Dall’alto scende una croce e il servo è come Cristo, parla ai due mentre sul palco si diffonde una musica corale. C’è un senso di sacralità nella scena e il facchino chiama i due protagonisti per nome. Porta loro il messaggio di Godot: stasera non verrà. L’idea è che Godot sia atteso come il Messia, come se fosse il Bene, quello che Didì e Gogò stanno aspettando. La croce ritorna anche nel dialogo di fine atto tra i due protagonisti. Infatti, emtrambi riflettono sull’idea che gli uomini “fanno presto a metterti in croce”, dove in questo caso il simbolo della croce è sinonimo di condanna. Vladimiro ed Estragone provano ad andarsene, ma qualcosa li trattiene sempre ad aspettare. “E se viene domani Godot? Saremo salvi”. Questa fede li spinge a non muoversi, tanto che l’atto si chiude con i due amici che si addormentano l’uno accanto all’altro, accudendosi. Rispetto agli altri personaggi che sono soli, Didì e Gogò riescono a salvarsi grazie alla loro compagnia. Termina la prima giornata. 

IL TEMPO. Si chiude la scatola di scena e una croce luminosa spezza il buio: è l’unica presenza sul palco. Si sente il rumore degli spari. Dall’alto scende una fila di coltelli insanguinati: ritorna la violenza. Rientrano Didì e Gogò, questa volta stesi a terra con la crepa dietro le loro spalle. Tremano, e in mezzo alla ferita nella tela c’è Pozzo immobile. Per terra, sul palcoscenico, c’è Lucky. 

Qualcosa è cambiato rispetto al giorno prima: gocciola tutto, il marcio avanza. La fogna è intorno. I due riprendono a parlare. “Tutte le voci sono morte, parlano tutte nello stesso tempo, sono foglie, sabbia, bisbigliano e sussurrano. Non si accontentano di avere vissuto. Bisogna che ne parlino. Fanno rumore. Noi aspettiamo Godot”. Anche l’atteggiamento di Pozzo in una sola notte è cambiato: chiede pietà e muove la pena dei due. Pozzo ora è cieco: forse non vede chiaro nell’avvenire. 

Pozzo sta morendo e chiede a Vladimiro e Estragone di non lasciarlo solo. Non è chiaro se sia sera o mattina: Gogò sostiene che sia l’alba, Didì al contrario che sia il tramonto. Per uno una speranza, per l’altro il tempo è esaurito. Nel mezzo c’e’ il padrone: i ciechi non hanno la nozione del tempo. Prima di andarsene, Gogò e Didì chiedono a Lucky di cantare, ma scoprono che non può più farlo, non può nemmeno gemere: oggi il servo è muto. Il tempo nell’opera ha un significato controverso: sembra scorrere in modo relativo e soltanto Pozzo nel dialogo finale della seconda giornata rappresentata ne chiarisce il valore. “Un giorno non vi basta: un giorno sono diventato cieco, un giorno diventeremo sordi, un giorno siamo nati e un giorno moriremo. Lo stesso giorno, lo stesso istante, non vi basta? Le madri partoriscono a cavallo di una tomba aperta. Il giorno splende un istante e poi è di nuovo l’eterna notte”. Non c’è speranza né per il padrone, né per il servo. Solo i due amici restano sulla scena per un’altra notte: i due tornano a dormire. Abbracciati. Anche l’albero è cambiato, ma inaspettatamente è in fiore. È l’unica forma di vita in scena. “Sarà forse la primavera?”, chiede uno dei due uomini. La speranza resta sempre nell’aspettare Godot..

MISERICORDIA. Lo spettacolo si chiude con l’ultimo dialogo tra Gogò, Didì e il facchino, che porta un nuovo messaggio di Godot. Questa volta non è in croce, questa volta è un uomo. Godot arriverà domani, ma nell’attesa i due si chiedono se aspettare o se andare via. “E se lasciassimo perdere? E se domani non arriva? E se ci impiccassimo?” Gogò e Didì, come a chiudere un cerchio, si pongono le stesse domande della scena iniziale. Questa volta non si impiccano perché non hanno una corda, ma in realtà la loro compagnia li salva: o vivono insieme o muoiono insieme. Non vogliono morire, nonostante dicano di volersi impiccare. “Ma dobbiamo tornare domani e domani ci procureremo una buona corda”. Non lo faranno: il vero laccio che li tiene attaccati alla vita è la speranza nell’attesa di Godot.