Podcast e film-making: è questo il futuro del giornalismo?

Il giornalismo contemporaneo è costellato da nuove forme di comunicazione capaci di catturare l’attenzione del pubblico: tra queste occupa un posto d’onore il podcast. Il Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia ha dedicato un panel a uno dei podcaster più popolari del momento: Pablo Trincia. Veleno, Il dito di Dio e Dove nessuno guarda: in queste note produzioni dell’autore, la voce diventa un mezzo fondamentale per evocare emozioni, sensazioni e riflessioni a partire dagli eventi che hanno segnato la cronaca italiana degli ultimi vent’anni. Durante l’incontro, moderato dall’autrice Raffaella Ferrè, emerge un dato fondamentale: sono 14 milioni gli italiani che a partire dall’inizio della pandemia hanno iniziato ad ascoltare i podcast. Trincia, però, è stato un precursore: Veleno – il racconto ormai noto in cui si riflette sulle vicende dei Diavoli della Bassa Modenese – è uscito nel 2017 ed è il primo podcast true crime italiano. «Si tratta di una narrazione che tratta un tema universale: quanto crediamo che siano forti i legami familiari. Questo è il potere dell’audio», spiega il giornalista durante il suo intervento.

«Ho iniziato a puntare sul podcast perché la tv per me era molto limitante: avevo bisogno di una narrazione che desse libertà alla parola e che non avesse limiti di tempo», racconta Trincia ai microfoni di Magzine. Ormai sono trascorsi parecchi anni e la creazione di podcast è diventata incessante. Tanti prodotti e tanta competizione: è il momento di domandarsi quale sarà il loro futuro. «Penso che ci saranno meno podcast, ma di qualità. Questo perché già adesso ne troviamo diversi realizzati con minore cura e attenzione e questo non potrà garantire una revenue sostenibile sul lungo termine», spiega l’autore di Sangue Loro.

Non è solo il podcast ad attrarre i giornalisti: sono tante le tecniche che i professionisti del settore utilizzano per garantire nuove forme di esperienza al pubblico. Ed è il mondo del filmmaking a diventare un veicolo fondamentale per l’informazione del presente. Durante il panel di Lot Carlier e Yoeri Albrecht, rispettivamente direttrice e presidente di Vereniging Veronica, e Isidoor Roebers, fondatore di Scenery, è emerso un aspetto cardine dell’informazione del presente: molte persone ormai preferiscono vedere pellicole come Spotlight di Tom McCarthy al posto di sfogliare le pagine dell’iconico Guardian. La fragilità più grande del settore riguarda la capacità dei videomaker di finanziarsi. Ed è proprio in questo scenario complesso e frastagliato, in cui giornalismo e cinematografia s’incontrano, che s’innestano le due realtà sopracitate: Vereniging Veronica, media company che supporta il settore dell’informazione, e Scenary, compagnia di produzione che sostiene la collaborazione tra storytellers e filmmakers pluripremiati. «Abbiamo lavorato con 14 teams, sentendoci su Zoom e collaborando con professionisti del mondo del cinema», spiega Roebers, ricordando una delle ultime esperienze. Dal panel di Carlier e Roebers emerge il loro obiettivo fondamentale: andare oltre le immagini e fare la differenza, capitalizzando l’incontro tra il mondo del giornalismo e del cinema. 

Grandi storie raccontate con uno smartphone

Le immagini, nel mondo del giornalismo, acquistano sempre maggiore rilevanza. La loro centralità nel raccontare le storie ha fatto sì che, nel corso degli anni, si moltiplicassero gli strumenti con i quali registrare video o scattare foto. Se prima, per farlo, occorrevano apparecchiature professionali costose e spesso scomode da trasportare, adesso con uno smartphone e qualche accessorio è possibile ottenere lo stesso risultato. È questa la convinzione di Robb Montgomery, video-giornalista e scrittore che oggi, nella seconda giornata dell’International Journalism Festival di Perugia, ha presentato l’incontro “Come i giornalisti raccontano grandi storie con gli smartphone”. Al panel ha partecipato anche Rob Layton, insegnante di mobile journalism alla Bond University in Australia. Nel corso dell’incontro Layton ha sottolineato l’efficacia degli smartphone per la realizzazione dei video, fornendo alcuni utili consigli per rendere un video registrato con un cellulare più “cinematic”: non solo l’importanza dell’uso narrativo delle luci di un ambiente o la scelta di una palette di colori in base al messaggio che si vuole trasmettere, ma anche le migliori applicazioni gratuite per registrare e montare video di qualità.

Aphrodite Salas, professoressa di giornalismo a Montreal presso la Concordia University, ha presentato uno dei suoi ultimi lavori sviluppati nella città di Inukjak, nell’Artico canadese. 

«Non c’erano molte infrastrutture per supportare gli stranieri. Abbiamo dormito in una cooperativa con solo le camere e un angolo cottura e abbiamo noleggiato un autista locale.» Nonostante la location aumentasse le difficoltà logistiche e lavorative, il tem della professoressa Salas ha potuto svolgere il lavoro anche grazie al semplice utilizzo delle attrezzature a disposizione. 

«Avevamo tre telefoni, un treppiedi, alcuni microfoni e un joby sticks. Per lavorare con un clima del genere, le regole sono poche ma vanno rispettate meticolosamente. È bene avere lo spazio si archiviazione pulito e il telefono sempre in modalità aereo. Nell’artico, il problema principale era il freddo. Per fortuna il nostro autista parcheggiava il camion vicino a dove giravamo i video, in modo da permetterci di caricare le batterie dei cellulari a seconda delle necessità. È incredibile ciò che abbiamo fatto con queste semplici attrezzature».

Solution Journalism: la solita storia non basta

Per sostenere un giornale non basta semplicemente riportare notizie. Le storie dei grandi media sono spesso ripetitive e molto simili tra loro, prive di quel l’impatto che potrebbe renderle davvero uniche, rischiando di allontanare i lettori e scoraggiare i finanziatori.

Secondo Dina Aboughazala, fondatrice e CEO della piattaforma Egab, ciò è dovuto alle scelte errate di alcuni gruppi editoriali, ad esempio il continuo utilizzo degli inviati a scapito dei giornalisti locali, che conoscendo meglio le zone e le comunità potrebbero riuscire a riportare storie che possano catturare il lettore: «Gaza è quasi inaccessibile ai media internazionali, eppure, dando la possibilità ai giornalisti locali di farle uscire, i media internazionali sono stati in grado di pubblicare storie veramente uniche». Ciò porta a un doppio beneficio, sia per il giornalista che per la testata: il primo ha la possibilità di far conoscere le sue storie e ottenere maggiori guadagni; mentre la seconda avrebbe un vantaggio competitivo sulle altre testate, garantendosi storie altrimenti inaccessibili, oltre allo sgravio dei costi che comporta la presenza di un inviato che a quelle storie non avrebbe accesso.

L’originalità delle storie e l’impatto che queste possono avere sono elementi fondamentali: «Il giornalismo non può essere solo un consumo passivo di notizie ma deve rinvigorire la sua missione di servizio pubblico», afferma Anita Li, fondatrice e CEO di The Green line, giornale di Toronto incentrato sulla formula del solutions journalism. In questo senso il quotidiano non si accontenta di riportare i problemi presenti nella comunità, ma anche di analizzarli a fondo e mostrare se le soluzioni messe in atto per risolverlo sono state efficaci oppure no. Questo tipo di reportage mira soprattutto a rendere il lettore partecipe di questioni che lo riguardano da vicino, stimolandone il senso critico e dunque cercare di portarlo ad essere un cittadino maggiormente consapevole. Ciò avviene non soltanto presentando articoli di approfondimento ma coinvolgendo gli abitanti della comunità in eventi tematici per discutere sia il problema che le soluzioni per risolverlo.

Pare che questo tipo di approccio abbia dato dei risultati. Lisa Urlbauer, responsabile per la formazione giornalistica presso il Bonn Institute for Journalism, ha dichiarato che le persone stanno cominciando ad apprezzare questo tipo di approccio al giornalismo, rilevando un incremento del 27% del tempo che i lettori passano online su articoli di solution journalism, segno, secondo la giornalista tedesca. del riconoscimento del suo valore.

Nuove frontiere per il giornalismo: la continua ricerca di Google

«La nostra filosofia è chiara, non sostituiranno il lavoro dell’uomo, ma saranno un supporto che consentirà al mondo dell’informazione di essere più ambizioso ed efficiente». Così, Shailesh Prakash, vicepresidente di Google News, descrive gli strumenti dell’intelligenza artificiale che la sua azienda sta progettando per facilitare la creazione dei contenuti multimediali. «Sono decisamente ottimista, il nostro obiettivo è un utilizzo responsabile dei nuovi strumenti tecnologici che permetta di ottimizzare i tempi di lavoro». 

Un esempio è VideoPoet, un’applicazione basata su reti neurali artificiali che converte le istruzioni testuali in video, contribuendo a creare contenuti visivi innovativi. Un altro caso esemplare è Pinpoint, uno strumento di ricerca progettato per esplorare e analizzare grandi raccolte di documenti, il cui aggiornamento permette di trovare una specifica parte di un video caricato a partire da una richiesta scritta immessa dall’utente.

La ricerca continua: lo scopo è la creazione di un numero di contenuti sempre maggiore e in una gamma di lingue sempre più vasta, fattore che potrebbe favorire l’affermarsi anche di quelle che finora sono sempre state sottorappresentate. Una condizione che si spera possa avere dei risvolti positivi anche per la diffusione della democrazia. Nonostante l’avanzare incessante della tecnologia negli ultimi decenni abbia cambiato totalmente il modo di fare giornalismo, sopravvivono molti pregiudizi da combattere.

«Comprendo la preoccupazione di molti, ma occorre ricordare che alla base di ogni lavoro ci sarà sempre la programmazione dell’uomo, che non potrà mai essere sostituita. Questa è la filosofia che adotta e continuerà ad adottare la mia azienda».